«Non ci faccio caso a questi giovani ribelli, diventeranno col tempo più realisti». Così rispose Margaret Thatcher all’intervistatore di Smash Hits – il giornaletto musicale allora più diffuso in Inghilterra – che le chiedeva un commento sulle decine di canzoni che chiedevano la sua cacciata. Sorrideva perfida: «Mi fa piacere che conoscano il mio nome. Ah ah ah». L’intervista, impaginata in blando stile punk – tirata fuori dagli archivi ieri pomeriggio, e ridiffusa dal Guardian – è documento prezioso di un’epoca. Uno dei tanti. Un intero decennio del rock inglese è profondamente segnato dall’icona della Signora di Ferro. Le imprese più infami (la repressione dei minatori, la guerra nelle Falkland), il neoliberismo, la desertificazione del secolare panorama industriale, produssero decine e decine di canzoni che si opponevano, gridavano contro. Che re-inventarono la musica «politica» rimasta per molti versi ferma al folk revival degli anni ’60.

Ci fu chi, come Billy Bragg, spiegò tra il serio e il faceto che la Thatcher era stata la sua unica ispirazione. Si calò nei panni di un Woody Guthrie redivivo e sostenne la lotta dei minatori: «Ero un minatore/ ero un portuale – cantava in Beetween the wars, in prima serata alla tv – Ho tirato avanti una famiglia in tempi di austerità (…) Ho continuato a crederci e a votare/ non per il pugno di ferro ma per darci tutti una mano». L’ex mod Paul Weller guardava intanto a Curtis Mayfield, Marvin Gaye, e al soul politico degli anni ’60: «Questa è gente che combatte per la sua comunità – cantava dei minatori in Soul Deep – Non dire che la lotta non ti riguarda, anche tu sei classe operaia». Elvis Costello mise assieme Robert Wyatt e persino Chet Baker per il melò operaio di quelli «che costruiscono le navi» (Shipbuiding), e siccome c’è la guerra delle Falkland e un po’ di lavoro, si potrà comprare «un cappotto nuovo per mia moglie e una bicicletta per i ragazzi (ma ne vale la pena?)». Gli Specials, amanti dello ska, simbolo vivente della nuova multiculturalità inglese, cantavano a loro volta una «città fantasma», coi club e i bar tutti chiusi: «Il governo ha messo i ragazzi ai margini/ lavoro non ce n’è/ non si può andare davanti». E così via.

A noi quaggiù, impastoiati nei nostri anni ’80, la cosa parve quanto meno eccitante, e nuova. La Thatcher un nemico chiaro, finalmente. Avevamo messo nel cassetto la nostra canzone politica degli anni ’70, e ora la ritrovavamo in forme nuove. Forse a posteriori ingenue tanto quanto lo erano state le nostre canzoni di lotta, ma guidate da una ricerca dell’egemonia e dell’elemento collettivo del rock e del pop, che ci era sfuggito in quella maledetta fine d’epoca. Which side are you on? Da che parte stai? Cantava ancora Billy Bragg, come Guthrie, in quegli anni. L’apparizione della Thatcher – che odiava la cultura ma fu musa dell’imprenditoria culturale (era solo l’antipasto di quel che sarebbe venuto dopo, a noi toccò il berlusconismo e amen) – ci insegnò a far bene i conti: con la musica pop, il suo valore, la sua posizione nel conflitto sociale. Perciò gli stessi sogni esotici, erotici, fantastici, immaginati dai Duran Duran, il girl power delle Spice Girls e tanta parte del pop inglese di allora furono sottilmente thatcheriani (sociologicamente, diciamo così, per quanto Gary Kemp degli Spandau Ballet si professasse socialista).

Il decennio, esausto, si chiuse nel segno dell’invettiva. La cultura imprenditoriale fai-da-te dei rave party, nel frattempo, aveva spazzato via anche il concetto un po’ legnoso di musica politica, ma questa è un’altra storia. Nel 1989 Elvis Costello cantò la sua attesa del giorno in cui avrebbe potuto buttare terra nella fossa di Margaret («quando l’Inghilterra era una puttana/ Margaret gestiva il bordello»). L’anno prima Morrissey, cantore decadente delle epoche sterminate dagli anni ’80, chiuse il suo album Viva Hate con una filastrocca che diceva: «ha un bellissimo sogno/ La gente carina/ vuole Margaret sulla ghigliottina». Il giorno dopo si presentarono i poliziotti a casa, dice la leggenda, a cercare la ghigliottina. Non la trovarono, chiesero l’autografo e se ne andarono.