Come si fa a parlare di un artista? Non c’è una sola risposta possibile a questa domanda, chiaro, ma sicuramente – per rispondere in modo giusto – occorre un filtro. In genere, uno di quelli più noti e usati è senza dubbio il filtro biografico. Raccontare l’opera di un autore o autrice attraverso la sua vita. In questo, «Les 7 vies d’un cinéaste» – mostra dedicata a Chris Marker (1921-2012) – non fa eccezione. L’allestimento è alla Cinémathèque di Parigi (3 maggio-29 luglio). L’iniziativa ha incluso e include anche una programmazione di film dell’autore e film di altri in relazione con la sua opera.
A cura di Christine Van Assche, Raymond Bellour e Jean-Michel Frodon, l’esposizione si struttura in sei sezioni che scandiscono e definiscono i vari profili di Marker. Fra questi: uomo della resistenza; scrittore; cineasta; anticolonialista; editore; viaggiatore; fotografo; attivista; archivista; storico; sperimentatore tecnologico. I titoli delle sezioni sono, invece, i seguenti: «Guerre, après guerre» (1938-1954); «Les statues meurent aussi» (1950-1955); «Grande et petites planètes» (1950-1961); «La Jetée» (1962); «Mai 68, avant et après» (1967-1980); «Tous les espaces-temps» (1982-2012).
Ciò detto, fra i temi di «Les 7 vies d’un cinéaste», se ne possono considerare due per le loro potenzialità relative alla dialettica tra autore e opera.

L’INCANTO

Nella mostra c’è sempre un tratto che ricorre in tutte le sezioni e che sembrerebbe riassumere tutte le fasi della vita del nostro. Si tratta di un qualcosa che potrebbe far identificare il genio francese con la figura di un narratore di tipo particolare. Sulla scia di un celebre saggio di Walter Benjamin, per Marker si potrebbe parlare di narratore incantato. E cioè di qualcuno che non ha mai rinunciato al racconto attraverso i diversi periodi storici da lui attraversati. Ma allo stesso tempo si tratta di una figura la cui magia, come nel celebre personaggio del romanzo di Nikolaj Leskov, sembra essere dovuta ad una sorta di fede naturale nelle varie forme dell’Altro, tra contaminazione e stupefazione.
Attraverso questa angolazione, apparirebbe forse meno sconcertante e spiazzante un percorso che va dalle prime prove di scrittura all’approdo alla rappresentazione in Second Life, passando per i lavori di viaggio, la fantascienza, e il cinema militante. Per esempio, una collana di formidabili guide di viaggio come quella che il francese creò per l’editore Seuil, cioè Petite Planète, è qualcosa che idealmente avrebbe poco da spartire con un film come La Jetée (1962). Per non parlare poi della fase militante del suo impegno nel cinema (SLON, Gruppi Medvedkin e non solo). Eppure, tutto si tiene se si considera come l’inventiva che caratterizza la sua opera – testuale e visiva – sembri poggiare ogni volta su una funzione o necessità narrativa. Come a dire che qualsiasi sperimentazione (incanto) passa per una sua immediata trasmissibilità (narrazione).
A questo proposito, al di là di alcuni esempi disseminati nel percorso espositivo, le sezioni della mostra che sembrano rendere in modo più coeso questa relazione sono, forse, «Grande et petites planètes» e «Tous les espaces-temps», mappature del lavoro di Marker come viaggiatore tradizionale (la prima) e di tipo, diciamo, particolare (la seconda). Questi approfondimenti sembrano essere leggibili con il pensiero anti-estetico del geniale antropologo britannico Alfred Gell (1945-1997). Specificatamente, con la sua idea di arte come qualcosa che si muoverebbe lungo le seguenti polarità: tecnologia dell’incanto e incanto della tecnologia. In «Les 7 vies d’un cinéaste», le due sezioni menzionate sarebbero idealmente corrispondenti a tali poli. Nella prima, la compresenza di diversi piani espressivi – documentazione; collane editoriali; pubblicazioni; film – fa intuire la complessità culturale della messa-in-forma nel processo creativo. Nella seconda, il visitatore può scoprire alcuni ferri del mestiere dell’ultimo Marker, dalle sue videocamere alle sue sperimentazioni mediatiche – si pensi al CD-Rom Immemory (1998), al programma di conversazione Dialector 6 (1988), oppure alle sue composizioni sonore – e capire quanto l’autore francese fosse sensibile all’azione dei media, interessato al loro uso e funzionamento.

UN CLASSICO

La polvere del mondo dello scrittore svizzero Nicolas Bouvier (1929-1998) è oggi ritenuto un classico della letteratura di viaggio. In Immemory, Chris Marker ne cita un passaggio dall’originale francese, il cui titolo è L’Usage du Monde, e lo definisce come il paragrafo che gli sarebbe piaciuto scrivere. Di questo, vale la pena riportare soprattutto una parte: «Comme une eau, le monde vous traverse et pour un temps vous prête ses couleurs. Puis se retire, et vous replace devant ce vide qu’on porte en soi, devant cette espèce d’insuffisance centrale de l’âme qu’il faut bien apprendre à côtoyer, à combattre, et qui, paradoxalement, est peut-être notre moteur le plus sûr.»

Ora, la citazione sembra dire qualcosa a proposito del francese. Nello specifico, vedendo la mostra parigina, potrebbe forse funzionare come bussola per orientarsi nella sua opera, quantomeno tra politica e storia. Da una parte, le parole di Bouvier suggerirebbero come, ad un certo punto, il lavoro di Marker avesse progressivamente preso i riflessi di un mondo culturalmente aperto e politicamente internazionalista – dai suoi film e libri di viaggio fino a Le fond de l’air est rouge (1977). Dall’altra, quanto scritto dallo svizzero quando l’acqua «si ritira» è qualcosa che può invece rappresentare l’ultimo periodo markeriano, quello degli ultimi suoi trent’anni (1982-2012). In questo caso, il «vuoto» di mondo che il francese si è ritrovato a decifrare è forse stato quello di una storia che, da sola, non gli appariva più con le stesse premesse di sintesi aggregatrice, e che quindi si è andato a cercare in questo o quell’altrove, attraverso l’utilizzo di altre discipline e mezzi. Ecco quindi il senso degli «espaces-temps» di Sans Soleil (1983) o di Level Five (1997), la sua ricognizione del conflitto bellico in ex Jugoslavia, il suo «cimento» nella programmazione informatica, e molto altro. Più in generale, l’ultima fase della sua produzione potrebbe indicare una specie di ritorno alle origini – alla centralità dell’esplorazione – ma dentro un contesto diverso, dove sembra non darsi un tutto come modello ma, semmai, dispersione. Sospensione. Polvere. Segno del tempo o possibilità di magia? Forse, ci sono entrambe le cose. Se, come artista, Marker è interpretabile alla stregua di un narratore incantato, la tentazione sarebbe quella di aggiungere che, fra le sue virtù, ci sarebbe la capacità di trovare tracce dove meno appaiono. Come nella rabdomanzia, l’arte di trovare l’acqua – cioè un mondo, la possibilità della storia – nelle stratificazioni più ignote.