«Essendo nato nel Giappone moderno, non posso che sentire dentro di me infinite frammentazioni e divisioni, sia artisticamente, sia personalmente», scriveva Akutagawa Ryunosuke negli ultimi anni della sua breve ed eterogenea carriera letteraria, nonché di una vita segnata dal disagio psichico e dalla malattia. Ed è proprio l’esperienza della modernità la nota di fondo nelle sue opere. Reso famoso a livello internazionale da Rashomon, il celebrato film di Kurosawa Akira del 1950, l’autore si formò in uno dei periodi più complessi e fecondi della storia del Giappone, il «governo illuminato» dei Meiji (1868-1912) che restaurò il potere imperiale, e vide il paese avviarsi a un processo di rinnovamento che coinvolse a molteplici livelli tutta la società, e che portò all’edificazione di uno Stato moderno fondato sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione in senso capitalistico delle istituzioni economico-sociali.
Il presupposto era che, per uscire dalla condizione di arretratezza, occorresse prendere a modello i ‘paesi dell’Occidente’, e non è quindi un caso se si assisté alla diffusione di una spiccata curiosità per la cultura d’oltreoceano, percepita come straniera eppure ben presto irreversibilmente interiorizzata, attraverso l’assimilazione anche in campo letterario di molte novità introdotte dall’Europa e dall’America.
La cifra della scrittura di Akutagawa, fra i più significativi interpreti della sua epoca, è dunque la frammentazione, che, come sottolinea Paolo Villani nell’introduzione alla raccolta Racconti e altri brevi scritti, recentemente edita da Aracne, scaturisce in primisdalla fusione che si realizza nella sua ispirazione fra le sensibilità letterarie rispettivamente giapponese e occidentale. Molteplici nei suoi testi le tracce di un’assimilazione che si traduce sovente nella riscrittura di opere straniere – di Anatole France, Théophile Gautier, William B. Yeats – così come di brani della letteratura giapponese classica o di antiche leggende rivisitate in chiave moderna, talvolta intrecciando fonti differenti in un’unica trama. Questo non solo ha indotto i critici a paragonarlo a un mosaicista, ma in qualche modo amplifica la sua attitudine visionaria, acuita dall’influsso delle avanguardie europee, in special modo dadaismo e impressionismo, e la predilezione per atmosfere e situazioni di volta in volta grottesche, fantastiche, surreali. Accanto, il gusto per la narrazione pura, che si sviluppa in un pugno di pagine, e la qualità fondamentale della sua poetica: la preferenza – cui mai abdicherà – per la forma della short story, cui si accompagna il rifiuto del modello di letteratura confessionale e di prosa monocromatica e autoreferenziale rappresentato dallo shishosetsu, il «romanzo dell’io» allora in voga.
Negli anni ’20, che coincidono con il periodo più prolifico e fecondo della parabola artistica di Akutagawa, alla creazione letteraria egli affiancherà la riflessione teorica, e giocherà un ruolo importante nel dibattito contemporaneo sulla funzione e sulla lingua della prosa, fino alla famosa controversia sulla trama del romanzo che lo vedrà antagonista del famoso scrittore Tanizaki Jun’ichiro. La narrativa che Akutagawa propone è, nelle sue stesse parole, «come i dipinti di Cézanne, in cui più dello schizzo sono importanti i colori». Il suo è uno spirito iconoclasta, che lo spinge a sperimentare, a cimentarsi in generi diversi, dal racconto storico al dialogo, dal monologo alla forma epistolare, dal modo fantastico al fiabesco, mescolando suoni, colori, sensi. Perché «la letteratura (…) è una forma d’arte che ritrae la vita per mezzo di tre elementi: il senso, il suono e la forma della lingua».
La selezione presentata in Racconti e altri brevi scritti offre al lettore un assaggio della proteiforme produzione dello scrittore: dai racconti di ispirazione storica, come Storia di una vendetta (1920) che nella riproposizione del motivo tradizionale della caccia all’uomo attraverso i domini feudali dell’epoca Edo introduce una riflessione sul prepotente ruolo del caso nel delinearsi della vicenda umana, agli esercizi di stile, come Agni (1920) dove l’autore si abbandona alla sperimentazione, mescolando avventura, giallo, fantasia, mistero. L’ombra della sofferenza mentale, la stessa che lo affligge e che a trentacinque anni lo porterà al suicidio, ritorna come motivo quasi ossessivo: in Inferni a sé stanti (1916), dove l’inferno buddhista dei testi sacri e del folklore popolare si confonde e si fonde con la descrizione di stati mentali tragicamente alterati; in Quelle storie assurde (1920), dove le allucinazioni, i deliri e le fobie diventano protagoniste di una narrazione che, giocando con l’ambiguità, lascia il lettore in balia di un ventaglio di angolazioni interpretative, libero di – o forse impossibilitato a – scegliere.
Altri racconti si caratterizzano per il tono autobiografico, che tuttavia l’autore interpreta in modo personale e originale: non si tratta infatti di narrazioni che inquadrano coerentemente la sua vita, quanto di estemporanee esternazioni di una coscienza interiore frammentata. La propensione per questo tipo di scrittura si manifesta soprattutto negli ultimi anni di attività, probabilmente come riflesso dell’acuirsi dell’inquietudine esistenziale e dell’insoddisfazione verso il proprio lavoro, che lo porteranno nel 1927 a togliersi la vita, per ingestione di una dose letale di Veronal. Nel 1935, l’istituzione del prestigioso premio letterario che porta il suo nome e che ancora oggi viene assegnato due volte all’anno ai migliori o più promettenti autori di junbungaku, la letteratura pura o «alta», sancisce la sua canonizzazione fra i ‘classici moderni’ del nuovo Giappone che l’epoca Meiji aveva visto nascere.