Una colonna di fumo denso e nero si alza fluttuando nel cielo terso di una mattina di fine dicembre, in via Amedeo Avogadro a Roma, sulla sponda del Tevere che collega i quartieri Ostiense e Marconi.

Da lontano, le alte ciminiere in mattoni rossi dell’ex-fabbrica di saponi della Mira Lanza sembrano funzionare a pieno ritmo. La fabbrica, aperta nel 1899, è stata smantellata nel 1956, e da allora è rimasta inutilizzata. Uno dei tre complessi della fabbrica è stato restaurato nel 1999 e al suo interno è stato costruito il Teatro India. Gli altri due complessi, invece, dopo vari tentativi di riqualificazione sono stati abbandonati. All’apparenza soltanto mostruosi ruderi di una Roma moderna e industriale che non c’è più. Ma è dalle ciminiere del secondo blocco in mattoni rossi che si alza quel fumo denso, segno di attività al suo interno.

NEL LUGLIO 2016 quel blocco è stato riportato alla luce grazie a un insolito intervento di street art, ideato dalla Fondazione 999contemporary. «Nel 2014 sono andato dall’assessore per il patrimonio del Comune di Roma – racconta Stefano Antonelli, curatore della mostra – e ho chiesto che, a fronte di lavori di pulizia e ripristino di alcune strutture, la Fondazione si potesse occupare della riqualificazione degli spazi interni».

Sulla carta un progetto pensato alla perfezione. Nella pratica un niente di fatto. Poco prima della firma ufficiale della convenzione, Ignazio Marino rassegnò le dimissioni e il progetto decadde. «Non avendo le autorizzazioni, l’unica possibilità era di entrare illegalmente nei locali dell’ex saponificio», aggiunge Antonelli.

PER LE DUE SETTIMANE seguenti, con un caldo cocente e cercando di non farsi vedere, lui e Seth, lo street artist francese che ha realizzato le opere, sono entrati nella fabbrica e hanno lavorato incessantemente, «spalando merda dai pavimenti, dai muri e dalle colonne. Ci siamo fatti strada tra detriti, mattoni e spazzatura, utilizzando tutto ciò che trovavamo per fare arte», conclude Stefano.

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Da quell’intervento artistico illegale è nato un museo: ripugnante per alcuni, affascinante per altri. Sul sito del museo poche raccomandazioni: «2500 metri quadrati di dipinti murali, installazioni, stanze segrete e generico vandalismo; aperto 24h/24, ingresso libero, no bagni, no negozi di souvenir, no tacchi; per l’ingresso: dopo aver attraversato il buco nella rete chiedere di Tito, il museum manager».

APPENA PRIMA DI ENTRARE nel buco, dietro ai cassonetti di via Avogadro, incontriamo la signora Aurelia, che vive qua vicino da più di 50 anni: «No bella, non lo so che c’è là dentro. Mi fijo m’ha detto che c’hanno fatto un museo ma puzza troppo pe’ esse vero. Ce stanno gli zingheri, e ogni tanto le guardie. Gente n’ho vista poca, tanti so’ turisti co’ quelle macchine ar collo. È venuta pure la tv. Mo semo famosi pure qua».

Avanzando tra rifiuti e vestiti laceri, il fumo si fa più spesso e l’odore di carbone più forte. Come se avessimo suonato a un campanello invisibile, si avvicina il padrone di casa, un uomo basso e sorridente, Tito appunto, il «museum manager».

 

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Il fumo non proviene dalle ciminiere della fabbrica, ora è chiaro: non è altro che il falò di bottiglie e scarti attorno a cui Tito e la sua famiglia si scaldano. Per la verità, precisa subito la moglie, «abbiamo anche una stufa a carbone dentro la nostra baracchetta, quindi non soffriamo il freddo, l’unico problema è l’acqua che quando piove allaga il pavimento. Vieni a vedere. È bella, vero?». Tito è uno zingaro ed è stato cacciato dal campo nomadi dove viveva. Si è quindi rifugiato in questa vecchia fabbrica con la famiglia e ha iniziato a costruire varie «baracchette», dove ora vivono una decina di parenti. Da qui, lui e la moglie gestiscono le visite guidate al museo. Con il ricavato della vendita del catalogo della mostra arrotondano quello che Tito guadagna facendo il parcheggiatore al Piazzale della Radio, poco distante.

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Palmira, 2016

È LUI CHE CI FA STRADA in questo scenario post industriale dove, tra macerie e libri bruciati, appaiono come in un sogno i bambini di Seth, figure ingenue e innocenti che percorrono da soli un mondo rovinato dall’incuria e dalla cecità dell’uomo. E così, nella prima sala del museo chiamata Palmira, grandi colonne rovinate dalle intemperie ma dipinte con colori accesi spingono a riflettere su quale sia il ruolo dell’arte e quale quello delle istituzioni, che qui non hanno mai speso tempo e denaro per il bene comune. Dalle finestre murate della fabbrica escono figure di bambini colorati e incappucciati, rannicchiati l’uno sull’altro, in attesa di essere salvati o lasciati a morire. Lampedusa è il nome dell’opera e guardando quelle finestre verrebbe voglia di prendere un piccone e spezzare i confini che quei bambini non possono valicare.

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Lampedusa, 2016

Tito ci porta in una zona della fabbrica molto buia e maleodorante: era la latrina. Tra escrementi, piscio e fazzoletti usati, un grande bambino rannicchiato cerca con la testa di uscire dal muro: Lux in tenebris è il nome dell’opera e, quando la luce entra dalle feritoie, sembra che quel bambino riuscirà davvero a sollevarsi dalla sua misera condizione, a «riveder le stelle». L’ultima sala, quella segreta, è raggiungibile solo da chi ha buone gambe: vi si accede da una scala a pioli di ferro, che cigolando sotto i piedi porta al piano superiore. La stanza sopraelevata, con un grande letto al centro, è tuttora utilizzata da uno degli abitanti del museo: rotoli di carta igienica, una bottiglia d’acqua, una bomboletta spray e del tabacco.

Tito spiega che il suo lavoro di guardiano ufficiale del museo prevede anche che lui controlli ogni angolo della fabbrica: «Nessuno può avvicinarsi ai murales senza che io lo sappia». Ci racconta che pochi giorni prima i carabinieri sono entrati e che, minacciandoli, hanno distrutto le baracchette: «Ci metto due secondi a ricostruirle, sai? Loro pensano di spaventarmi per mandarci via ma noi non facciamo niente di male. Vogliamo solo che questo posto resti così com’è». Racconta soddisfatto che la Rai lo ha intervistato durante la trasmissione Quelli che il calcio e che tutti l’hanno visto in televisione.

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BRICKSEAT (Brexit), 2016

IL CLAMORE DELL’EVENTO ha acceso i riflettori su questo angolo di Roma sconosciuto, ma non solo in positivo. Il capogruppo di Fratelli d’Italia del municipio XI, Valerio Garipoli, ha presentato un’interrogazione sostenendo che tutta l’operazione sia «tacciabile di indurre le persone a correre un pericolo serio» e che «i residenti del quadrante Marconi meritano rispetto delle regole, legalità e sicurezza».

«Possono dire quello che vogliono – riponde Stefano Antonelli – ma adesso la fabbrica è visitabile, il museo è gratuito e una zona completamente abbandonata è stata riportata alla città». Tito di queste polemiche non si cura. Con la famiglia continua a fare il suo lavoro, con orgoglio e tanta ironia: «Quando vuoi, noi siamo qua. E chi si muove! Se ci avverti prima possiamo invitarti a cena, ci mangiamo tutti insieme un bel capretto cotto sul fuoco».

Questo articolo è uno dei lavori finali del corso su «Il reportage sociale» tenuto da Giuliano Battiston e da Massimo Loche alla Scuola del Sociale di Roma