La luce bluastra che sale verso il cielo sopra la centrale nucleare di Chernobyl appare da lontano uno spettacolo affascinante: molti cittadini di Pripjat salgono sopra la ferrovia per ammirare tutti insieme quel bagliore che illumina una notte di primavera. È il 26 aprile 1986, e la luce è dovuta al vapore ionizzato immesso nell’aria dall’esplosione del reattore numero 4 della centrale nel corso della più grande catastrofe nucleare mai verificatasi. Nulla del genere si era mai visto prima, e fra quegli abitanti di Pripjat affacciati nella notte non serpeggia il minimo sospetto dell’incubo in cui sta per sprofondare la loro cittadina – la più vicina a Chernobyl – l’Ucraina tutta, la Bielorussia (distante appena 16 km) e la stessa Europa raggiunta nel giro di poco da venti radioattivi e panico.

ERANO esattamente l’una, 23 minuti e 45 secondi quando il reattore esplose 33 anni fa, l’orario che dà il titolo al primo episodio della miniserie Hbo che andrà in onda su Sky Atlantic a partire dal 10 giugno: Chernobyl (creata da Craig Mazin, regia di Johan Renck), che ricostruisce in cinque episodi il disastro nucleare e il suo faticoso contenimento nei nove giorni successivi, arrivando poi al processo per individuare i responsabili di quella tragedia. A partire da un punto fermo, che informa tutta la narrazione: oltre alla catastrofe nucleare si è consumata a Chernobyl un’altra disfatta – il sistematico tradimento della fiducia riposta nelle autorità dell’Unione sovietica dai cittadini. L’insabbiamento della verità – ancora nebulosa a tanti anni di distanza – e la prontezza del sistema a mettersi in moto per coprire i propri sbagli direttamente proporzionale alla sua lentezza nell’uscire dal torpore, dalla convinzione incrollabile che una cosa del genere semplicemente non era possibile. «Al cuore della serie – ha detto Mazin in un’intervista – c’è una domanda. Che succede quando sviliamo la verità e al suo posto celebriamo delle menzogne? O quando ci serviamo della verità, ne facciamo il nostro giocattolo, la distorciamo? Che succede quando neghiamo la sua stessa esistenza?».

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PROTAGONISTI della miniserie, che si impone il più possibile un rigore storiografico nel ripercorrere le diverse fasi della catastrofe, sono il chimico Valery Legasov (Jared Harris), e il burocrate Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), inviati a Chernobyl all’indomani dell’esplosione come parte della commissione incaricata di valutare l’accaduto ed elaborare un piano di contenimento dei danni. È proprio sul suicidio di Legasov, nel 1988, che si apre Chernobyl: è lui l’uomo «simbolo» suo malgrado dello svilimento della verità, inviato dal governo sovietico a riferire a Vienna (all’Agenzia internazionale per l’energia atomica) una versione «riveduta e corretta» degli eventi in cui l’accento era posto sull’errore umano per nascondere i malfunzionamenti strutturali della centrale intitolata a Vladimir Lenin. In seguito Legasov cercò fino al suo ultimo giorno di far emergere quella parte di verità che aveva scoperto e compreso nella sua missione per scongiurare un’apocalisse superiore a quella di Hiroshima e Nagasaki, prostrato però da un senso di colpa che lo portò a impiccarsi a due anni dall’incidente.

LA SERIE si concede invece una «libertà poetica» con il personaggio della scienziata bielorussa Ulana Khomyuk, la terza protagonista interpretata da Emily Watson che incarna lo sforzo d’inchiesta per comprendere le cause dell’incidente. Khomyuk è una figura del cinema investigativo in una serie che nella sua ricerca di estremo realismo incrocia però – quasi per necessità – un gran numero di generi, dal disaster movie al film giudiziario fino al vero e proprio horror. E forse indugia in un’eccessiva tipizzazione dei grigi burocrati sovietici, o al contrario delle spie spregiudicate – oltre che dello stesso Gorbaciov – che all’alba della Perestrojka stendono un’ulteriore cortina di fumo a celare la fallibilità di una tecnologia dall’inestimabile valenza simbolica. Diventata invece il simbolo del crepuscolo di un mondo sull’orlo del disfacimento.

SOTTO il cielo perennemente livido, o fra i miasmi della centrale dove gli stessi operai faticano a comprendere cosa stia accadendo, Chernobyl rende anche un omaggio essenziale, senza retorica, a chi – impiegati della centrale, minatori che scongiurarono la contaminazione delle falde acquifere, pompieri, soldati e volontari da tutta l’Urss – si imbarcò in una missione dall’esito mortale per scongiurare una vera e propria apocalisse. E nella sua apologia della devozione degli scienziati alla verità, Chernobyl rivolge esplicitamente un monito al nostro presente in cui, con le parole di Mazin, «ci ritroviamo a vivere la guerra globale alla verità. Ma ciò che il disastro di Chernobyl rende chiaro è che alla verità questo non importa. Il clima continuerà a cambiare e, come nel reattore numero 4, delle cose orribili continueranno ad accadere a prescindere dal fatto che lo vogliamo o no».