“Questa è la nostalgia: vivere nella piena e non avere patria dentro il tempo” i versi di Rilke segnano il momento culminante della performance Triumphs and Laments. Un progetto per Roma di William Kentridge, svoltosi il 21 e 22 aprile, e davvero l’artista sudafricano appare oggi come un fiume in piena: dalla mostra milanese – in cui espone un’altra delle sue più recenti creazioni, una multivisione a otto schermi, More Sweetly Play the Dance, con una esaltante colonna sonora di Johannes Serekeho – a questa mega opera romana, graffita sul muraglione del Tevere, che diventa per due sere il palcoscenico per l’esecuzione della musica di Philip Miller, collaboratore storico di Kentridge, e del co-compositore Thuthuka Sibisi.

Il mondo di Kentridge è, si sa, un mondo in bianco e nero, e la mostra che gli dedica il Macro ne è una fondamentale dimostrazione, ma è un mondo che conserva ricordi, segni, ferite di tutto quel che è accaduto prima e – come un palinsesto – ciò che si vede appare come un attimo di sospensione, nel quale l’embricarsi di sentimenti vari e contrapposti si irradia nel tempo come un perpetuo monito contro la violenza dell’uomo sull’uomo.

Anche la composizione di Miller sembra ubbidire a questo contrapporsi di due estremi: ciascun’orchestra parte da un lato dell’immensa opera e mentre ad una è affidato il tema del trionfo, nel quale le sonorità degli ottoni rimandano alle buccine dei conquistatori romani, dal lato opposto le note gravi di una marcia funebre scandiscono un ritmo elementare e inesorabile. La contrapposizione va avanti per qualche minuto, mentre i due complessi musical-coreografici avanzano sulla banchina – ingigantiti dalle ombre che proiettano sullo sfondo e dai labari figurali che innalzano – apparentemente ignari l’uno dell’altro, fino a quando sembrano voler comunicare lanciandosi, come in un responsorio, grida e invettive fino a fondersi in un tessuto poliritmico dal quale emergono semplici accordi su cui gli archi elevano fuggevoli cattedrali sonore.

Dalle due orchestre, una volta riunite, si innalzano voci che si slanciano ripetutamente in brevi fiammate corali (Miller ha dichiarato di essersi ispirato a una composizione rinascimentale di Salomone Rossi) come alla ricerca di una lingua comune, ma, dopo aver scandito più volte i versi di Rilke, i due gruppi si separano nuovamente e, ciascuno ripresi il canto e le danze, si dirigono verso la propria sorte.

Resta allo spettatore il ricordo di uno spettacolo tanto sfavillante e coinvolgente quanto immerso nell’ambiguità della notte e della storia, nel quale il lutulento fiume, lungo il quale direttori, musicisti, ballerini e ‘portatori’ hanno narrato la propria vicenda attingendola da un patrimonio comune anche alle nostre vite, svolge un ruolo fondamentale e – come il Reno in Wagner – appare suscitatore di un universo creativo e mitico la cui unica realtà è quella di un fatale dissolvimento, inevitabile destino del fluire eterno delle acque da cui lo stesso fregio sembra essere provvisoriamente emerso.