Una settimana molto serrata ha racchiuso l’edizione annuale di Teatri di vetro, la rassegna curata dalla compagnia Triangolo Scaleno che mostra i nuovi e i nuovissimi della scena italiana. Pochi, anzi pochissimi gli spettacoli compiuti, tra quelli che si sono alternati al Palladium e negli altri spazi della Garbatella (ma alla fine il festival si è spostato anche verso il Pigneto e gli spazi di quell’altro polo artistico romano); molti erano per lo più studi, saggi, e qualche volta semplici «lampi» che prenderanno col tempo forma di comunicazione autosufficiente. In questo senso la testata stessa della rassegna, Teatri di vetro, alla settima edizione rischia di non evocare solo la glasnost del metodo ((i gruppi vengono scelti attraverso un pubblico bando) ma anche quella che del vetro è la caratteristica principale, la trasparenza ottica, che senza lasciare traccia fa vedere oltre. Per non parlare dell’ancor più pericolosa «fragilità» che del vetro è propria.

Tra gli spettacoli veri e propri, due sono stati quelli che suscitavano maggiori curiosità e aspettative. Entrambi con un fatidico «testo», e tutti e due con degli attori, completi, chiamati a interpretarlo. Uno dei due ha potuto contare addirittura sull’apporto produttivo di un teatro pubblico, lo stabile delle Marche, che in qualche modo ha potuto contribuire alla sua più compiuta riuscita.
Ma si può cominciare a parlare dell’altro titolo, Robe dell’altro mondo di Carrozzeria Orfeo. È un gruppo giovane ma che da qualche anno si va affermando come qualcosa di più che una speranza. Nasce da alcuni attori formatisi insieme all’Accademia di Udine, che delle loro performance sono interpreti e registi, oltre che autori della drammaturgia (questa volta firmata dal solo Gabriele Di Luca, che con Massimiliano Setti condivide gli altri ruoli e anche la storia della compagnia).

Se in altre occasioni, dai primissimi exploit a quella che li ha portati a vincere qualche anno fa il Premio Tuttoteatro/Cappelletti, oltre alla padronanza del corpo risaltava una forte coscienza civile che li spingeva sui sentieri impervi della coscienza in tempo di guerra, qui quegli stessi elementi sembrano farsi più astratti. Le Robe dell’altro mondo sono infatti letteralmente gli alieni, eroi positivi che con la loro diversità rispetto al tran tran della convivenza quotidiana, e i turbamenti e gli svarioni che possono a questa arrecare, aiutano gli umani a essere pacificati. Anche se poi, come facilmente si può immaginare, la diversità cozza col pregiudizio, il razzismo e l’egoismo di massa. Che arriveranno a sfociare esplicitamente nel desiderio di farli fuori, gli alieni. Rendendo così evidente che gli «alieni» siamo anche noi stessi, con le risposte irrazionali e private che diamo ai problemi più semplici, alle partite più lineari.

Per raccontare tutto questo, oscillando dal bozzetto localista alla rarefazione da science fiction, gli attori recitano con maschere, in una dimensione esplicitamente da cartoon. Non mancano i momenti di qualche emozione, ma il linguaggio fumettistico può far apparire seriali, e quindi troppo elementari, piene di contraddizioni ma prive di ogni ambiguità, quelle favole morali di creature e di animali, di vittime e carnefici. Anche se probabilmente le repliche porteranno ritmo e mordente da rendere secondari certi particolari, per dare più grinta al racconto e all’impegno civile che vi sottende.

È in qualche modo un racconto morale anche l’altro spettacolo cui si alludeva prima: La società, sottotitolo «tre atti di umana commedia». Anche qui abbiamo degli attori che sono pure autori e registi delle loro creazioni (un dato emergente, quindi). Lino Musella e Paolo Mazzarelli ci hanno già mostrato spettacoli piuttosto interessanti. Qui disegnano un affresco «realista» di un gruppo di tre amici che ereditano da un vecchio defunto (uno di loro è il nipote) uno spazio che insieme avevano rimesso a posto, mettendosi appunto in «società». Insieme alla badante straniera del morto, che con uno di loro ha qualche intimità (ne è rimasta incinta) e al vecchio ha destinato ogni dedizione, i tre sperimentano la rinascita, frikkettona eppure rigorosa nel servizio, di quello spazio, anche se il carattere intimo di quella casa Usher di periferia metropolitana, farà saltare intenzioni ed accordi, per mandare rapporti, intraprendenza e fatiche nuovamente al rogo. Storia amara più che edificante, fotografia di tanti «vorrei ma non posso» non solo di quella generazione, ma drammaturgia costruita con cura, e soprattutto belle prove di attori. Insieme ai due infatti vanno in scena Laura Graziosi nel ruolo appassionato della badante, e Fabio Monti, attore giovane e straordinario che per la prima volta indossa un ruolo, dopo aver conquistato il pubblico con i racconti appuntiti e irresistibili della sua Emmeà Teatro. Lo spettacolo diventa l’etichetta più compiuta e prestigiosa dell’intera rassegna, e un diagramma interessante di una condizione che la crisi attuale rende tanto condivisa.