I gas serra nel lunghissimo periodo impattano sul clima del vivente umano e non umano, nel breve e nel lungo periodo, fra l’altro, sul respiro e sulla salute della oltre metà cittadina degli umani. La riduzione delle emissioni petro-carbonifere (specie quelle di trasporti e riscaldamento) non serve solo a contenere il riscaldamento del pianeta e i conseguenti costi finanziari e sociali, ma anche a ridurre l’inquinamento atmosferico. Sotto questo punto di vista a Parigi si è capito molto (qui l’adattamento serve a poco) e deciso poco. Lo si capisce ancor meglio ogni giorno che passa a Pechino e a Roma (misurandolo in modo più sofisticato della sola anidride carbonica).

Nei commenti alla Cop21 sono stati sprecati aggettivi storici. Tutti le capitali e le nazioni che ospitano un’importante conferenza Onu vogliono aver lasciato un segno indelebile nel percorso dell’umanità, ogni capo di governo e ogni ministro vogliono poter dire di aver influito su una svolta epocale durante il proprio mandato, ogni militante e ogni interesse costituito vuole non sprecare il proprio tempo. Le categorie del bicchiere mezzo pieno-vuoto, della rivoluzione e del fallimento, di ottimismo-pessimismo ritornano ciclicamente e non aiutano a comprendere.

Che la temperatura media del pianeta stia crescendo per comportamenti umani e che il riscaldamento provochi effetti già dannosi e potenzialmente rovinosi è acclarato sul piano scientifico e diplomatico da 25 anni. L’Onu è un benestante precario corpo di nazioni formalmente unite, da quando è finita la guerra fredda ha cominciato a muoversi, nel 1988 ha legittimato un gruppo mondiale di scienziati che nel 1990 hanno approvato un primo Rapporto sui Cambiamenti Climatici.

E nel 1992 ha organizzato a Rio una Conferenza per approvare una conseguente convenzione (insieme ad altri atti e indirizzi su ambiente e sviluppo). Da allora sono seguiti l’entrata in vigore, ben 21 incontri di tutte le “parti” dell’Onu e altri quattro rapporti dell’Ipcc.
Da un quarto di secolo sappiamo con sempre maggiore precisione che la temperatura del 2050 non dovrà aumentare di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, se vogliamo evitare uno sconquasso ingestibile nell’ecosistema globale e in tante singole aree, ingentissimi costi e migrazioni forzate.

Nel 1997 a Kyoto si era adottata una strategia di impegni scadenzati e vincolanti, lì (come primo passo e per un primissimo periodo fino al 2012) solo per i paesi che avevano provocato più emissioni e riscaldamento. Il protocollo è entrato in vigore solo 8 anni dopo e progressivamente quella strategia è stata abbandonata, se ne è abbozzata un’altra da 5-6 anni. Da allora l’essenziale non è stato più negoziato, ovvero obblighi quantificati e scadenzati, globali e differenziati, legalmente vincolanti di riduzione delle emissioni per garantire al pianeta un aumento minimo della temperatura (e minor inquinamento).

Ogni paese farà quanto vuole, si adatterà, volontariamente, questa è la nuova strategia, piani nazionali di mitigazione e adattamento. Il ministro convoca sindaci e governatori ma il suo bel piano di decarbonizzazione non lo ha ben fatto!

Ora la nuova strategia ha un minimo percorso legalmente vincolante e qualche punto fermo «politico». Da cinque anni i due punti cruciali e minimali del negoziato sono i soldi e i controlli: quanto e come mettono fondi i paesi ricchi per aiutare quelli poveri; chi e con quali coerenti omogenei strumenti misura l’eventuale riduzione. Sul piano finanziario è stato trovato un qualche consenso, sia sulla cifra annuale dopo il 2020 sia sulle modalità di versamento prima e dopo il 2020.

Sul piano amministrativo si lascia una eccessiva flessibilità: i piani nazionali di impegni volontari che sono stati presentati da 188 paesi, anche se fossero rispettati, provocheranno un aumento della temperatura tra il 2,7 e il 3%. Nel prossimo decennio in ogni paese dovremo ottenere che si faccia prima e meglio.

E poi ci sono le «grandes questions oubliées» come le aveva chiamate lo speciale di Le Monde per Cop21: oceani, biodiversità, migrazioni, sicurezza alimentare. Questi temi non figuravano nemmeno all’interno del negoziato climatico, pur essendo strettamente connessi agli impatti e agli effetti dei cambiamenti climatici in corso.

Nel prossimo decennio dovremo ottenere che si apra un serio negoziato globale, i documenti di Parigi non danno certezze su energia e agricoltura, mobilità e migrazioni sostenibili.

L’enciclica papale e i documenti di altre religioni (a Istanbul quella dell’Islam) sono essenziali alla nuova strategia, abbiamo un gran bisogno di donne e uomini di buona volontà, credenti e non credenti, per promuovere resilienza degli ecosistemi, biodiversità dei beni comuni, lotta a ingiustizie e inuguaglianze, garanzia globale di libertà di accesso alle risorse, cooperazione (anche decentrata) allo sviluppo sostenibile.
L’accordo di Parigi va ora ratificato (il meccanismo delle ratifiche è simile a quello che approvammo a Kyoto 18 anni fa, solo che ora gli emettitori che contano sono Cina e Usa, mentre allora erano Usa e Russia). Il combinato disposto delle parti «legali» e delle parti «politiche» rende non indispensabile l’iter legislativo americano (Obama è riuscito in una bella operazione). Entro il 2020 dovrebbe entrare in vigore, un po’ prima vi sarà la verifica «politica» dei piani nazionali, un po’ dopo quella «legale» (quinquennale). Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni.