Soprattutto arabi, naturalmente, ma in tutto il Nord Africa vivono i berberi con una propria lingua e una propria memoria. Iran, Turchia e Israele hanno proprie lingue nazionali. La popolazione curda, sparsa in tre o quattro stati, potrebbe essere vicina a realizzare un vecchio sogno nazionale. L’islam è la religione con cui spesso la regione viene identificata. Ma la comunità musulmana è divisa fra sunniti e sciiti e ci sono ingenti comunità di cristiani, ci sono gli ebrei, ci sono i parsi. La recente esplosione del fanatismo islamico ha contribuito perversamente a rivelare – con le violenze che sono state riservate a tutti i «diversi» – la varietà e molteplicità di un mosaico che ci ossessiona e che malgrado tutto non conosciamo abbastanza bene.

L’antropologia ha come oggetto privilegiato i gruppi etnici nell’accezione più vasta possibile, studiando le differenze e le somiglianze delle rispettive identità. Il vasto e contestatissimo territorio che viene identificato universalmente come Medio Oriente è sicuramente un terreno ideale per «uno sguardo antropologico».

Il libro di Ugo Fabietti Medio Oriente. Uno sguardo antropologico – Raffaello Cortina Editore, pp. 300, euro 24 – spiega all’avvio quando e perché è stata introdotta o inventata questa espressione, venuta da fuori, accomunando Maghreb e Machreq, divisi o messi in comunicazione dall’Egitto, a cui non si adatta benissimo la qualifica di «arabo-islamico» pur essendo uno dei fulcri dell’intero sistema . Se mai, vanno rimossi i pregiudizi che hanno inquinato l’approccio al Medio Oriente e più in generale all’Oriente, inteso convenzionalmente come l’alterità, da parte della cultura occidentale.

Deformazioni antiche

Le deformazioni non sono state solo il portato del colonialismo, che aveva bisogno di distinguere, classificare e gerarchizzare. Proprio la cultura alta, anche se l’antropologia indugia di preferenza sulle pratiche della vita quotidiana, si è distinta nel creare, argomentare e diffondere le tante mistificazioni di cui poi si è impossessata la politica. L’approdo ultimo è stato lo «scontro di civiltà», che mirava soprattutto se non esclusivamente a mettere in risalto la «minaccia» portata dall’islam all’Occidente, considerato di per sé il compimento della modernità. Resta da stabilire, ed è uno degli obiettivi di quest’opera di Ugo Fabietti, se l’Oriente così come storicamente si è inverato nel mondo arabo-musulmano – scontando l’improprietà di siffatta dizione – tenda a perseguire a sua volta, vivendo tensioni che non di rado contrastano i processi di trasformazione, un’idea di progresso con l’adeguata corona di diritti e doveri per tutti che l’Occidente ritiene insostituibili e che ha infatti cercato e cerca ancora di esportare, anche con la forza, spesso intorpidendo il quadro generale.

Come si ricava dalle traversie dell’Afghanistan, la ricostruzione e lo sviluppo hanno bisogno di valori condivisi dai gruppi locali più che di una pallida emulazione della matrice occidentale. In Somalia come in Libia, la solidarietà tribale è più attraente dell’idea di stato nazionale o pseudo-nazionale. Su grande scala, il travaglio del Medio Oriente deriva anche dallo sforzo di convincere i vari popoli a «rivedere» il proprio posto e ruolo all’interno di stati in bilico fra dissolvimento e sparizione.

Orientalismo di maniera

Il libro, oltre a dividersi nei vari comparti in cui vengono analizzati gli aspetti più propriamente «antropologici» (l’unità comunitaria, il genere e la donna, i costumi, la famiglia, la discendenza e le rappresentanze in funzione del potere egemonico), procede fra sintesi e dettagli oggetto di specifiche ricerche dell’autore o che l’autore riprende e adatta da altri studiosi. L’analisi che ne emerge sembra dimostrare che il Medio Oriente, troppo spesso visto come unificato, soprattutto quando la geopolitica fa premio su tutto il resto, è comunque variegato. Temi singoli, anche molto importanti per definire la fenomenologia a cui il libro è dedicato, sono sciolti in modi diversi dai soggetti in loco. Fabietti tiene il timone della sua specialità ma gli avvenimenti e gli assetti descritti dipendono in tutto o in parte dalle scelte «materiali» che l’orientalismo di maniera, bollato addirittura come razzista da Edward Said nella famosa diatriba a distanza con Bernard Lewis, aveva trascurato a vantaggio dei fattori «filologici».

Le società del Medio Oriente, anche quando siano agite dai protagonisti diretti, riflettono gli effetti del modo di produzione, del livello delle istituzioni, delle capacità di interazione con il mondo tutto. La vicinanza parentale ha valenze che incidono ai vari livelli della competizione; i tribalismi contemporanei, più che re-insorgenze della tradizione, sono la manifestazione di lotte o concorrenze per accedere al potere e alle risorse. È il Corano o la politica a istituire questa o quella oppressione? Nel libro se ne parla anche a proposito del velo.

Un punto su cui Fabietti ritorna spesso è che il contesto in cui si muove il libro è l’antropologia e non la storia o la geopolitica. D’altra parte, l’antropologia culturale confina con altre discipline, in primis la storia e la politica, e sconfina in esse. Fabietti lo sa bene anche se si impegna maggiormente in ciò che corrisponde alla sua vocazione, alla sua formazione e alla sua esperienza di campo.

L’attentatore e il suo pubblico

Recentemente, a proposito di una precedente opera di Fabietti (Materia sacra, uscita nel 2015 presso lo stesso editore), Francesco Remotti ha riconosciuto che a certi livelli l’etnografia ha lo stesso valore scientifico degli studi storici. Dopo tutto, è nel fondamentalismo che i richiami alla religione e alla storia come rappresentazione del proprio passato si coniugano alla perfezione. In una pagina molto bella, si mette a fuoco il rapporto che si stabilisce fra l’attentatore suicida, che compie così un atto nello stesso tempo religioso e politico, e il suo pubblico.

Naturalmente entrano nel gioco anche le forze esterne che gravitano nel Medio Oriente e le loro interferenze fanno ulteriormente svaporare le particolarità che gli attori propri del Medio Oriente si portano dentro il loro «noi» profondo. Alla fine tutte le crisi si condensano in un interrogativo angoscioso: noi popoli e stati del Medio Oriente siamo stati «abbandonati» dall’Occidente o siamo periti per le insufficienze dei nostri ordinamenti e delle nostre classi dirigenti?