Il Mediterraneo è, nelle parole di Fernand Braudel, «mille cose alla volta. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma una successione di mari. Non una civiltà, ma più civiltà sovrapposte… Il Mediterraneo è un crocevia antico. Da millenni, tutto confluisce verso questo mare, sconvolgendo e arricchendo la sua storia» (La Méditerranée – espace et histoire).

La storia del Mediterraneo, secondo lo spirito braudeliano, è dunque da intendersi come la storia dei processi di incontro, scontro, scambi ed influenze reciproche creatisi tra le varie civiltà nate e cresciute sulle sue sponde; un enorme crogiolo al cui interno si sono fuse tradizioni provenienti dall’Oriente e dall’estremo nord. Se tale approccio appare doveroso quando si parla delle prime grandi civiltà del mondo antico, dal momento che esse si irradiarono dall’area inclusa fra l’Anatolia, il Tigri e l’Eufrate verso il bacino del Mediterraneo, nel caso dell’epoca che siamo soliti chiamar medioevo, e tantomeno in quella moderna, esso non è altrettanto immediato: nel senso che, per la formazione dell’Europa all’indomani della «caduta» dell’impero romano nella sua parte occidentale, sono state fondamentali le grandi migrazioni dal nord e dall’est. La matrice «nordica» della civiltà europea è stata per questo considerata talvolta prevalente rispetto alla facies mediterranea. Si tratta tuttavia di una visione che, al limite e sempre in modo parziale, potrebbe essere opportuna per i secoli altomedievali, che videro il continente europeo prevalentemente ripiegato su se stesso.

 

[do action=”citazione”]Le fonti sono piene di marinai o pescatori cristiani finiti nelle mani dei turchi, convertitisi all’Islam, poi  protagonisti di avventurose scalate al potere nei ranghi della flotta ottomana. Insomma, di persone che hanno costruito le proprie esistenze cambiando identità[/do]

A partire dal X-XI secolo, tuttavia, il rapporto con il Mediterraneo tornò a essere al centro della vita europea e di quella «rivoluzione commerciale», per utilizzare l’espressione cara ad alcuni storici, che divenne evidente in tutta la sua pienezza nel corso del Duecento.
Con la scoperta del Nuovo Mondo, l’apertura delle rotte atlantiche e l’affermazione di potenze europee che sull’Atlantico e sui mari del nord si affacciano (a partire da Olanda e Inghilterra), molti tendono a considerare decaduta o estinta la centralità del Mediterraneo. Se uno spostamento delle rotte commerciali certo vi fu, nondimento il Mare nostrum rimase a lungo uno scenario interessante, se non altro sotto il profilo culturale. Qui il confronto tra mondo arabo, impero ottomano e stati euromediterranei continuò a esser vitale e a render vero il paradigma braudeliano. In modo particolare, il Mediterraneo rimase teatro di molte vicende umane peculiari, di vite vissute al confine tra mondi, culture e religioni differenti, di identità liquide in un mondo lacerato dalle guerre di religione (non quelle contro i musulmani, ma quelle fra cristiani cattolici e riformati) e che quindi si immaginerebbe tetragono ai passaggi da una sponda all’altra. La realtà, però, è ben diversa: ce lo dice la vicenda cinquecentesca di Leone l’Africano, resa nota dal romanzo di Amin Maalouf e poi ripresa in un saggio (ma con qualche dose di fiction) di Natalie Zemon Davies. Ma non si tratta certo di un episodio unico: per esempio, le fonti sono piene di marinai o pescatori cristiani finiti nelle mani dei turchi, convertitisi all’Islam e poi resisi protagonisti di avventurose scalate al potere nei ranghi della flotta ottomana. Insomma, di persone che hanno costruito le proprie esistenze cambiando identità.

Tuttavia, non sappiamo quante possano essere le vite simili a quella di Samuel Pallache, ebreo di origini spagnole nato a Fez, ambasciatore per il re del Marocco, poi cattolico in Spagna e spia per gli spagnoli, o ancora mercante e doppiogiochista (nonché nuovamente ebreo) ad Amsterdam. La sua storia è raccontata con criteri metodologici di grande precisione, ma anche con la verve che essa decisamente richiede, da Mercedes García-Arenal e Gerard Wiegers nel libro L’uomo dei tre mondi. Storia di Samuel Pallache, ebreo marocchino nell’Europa del Seicento (Viella, 26 euro, 262 pp).

I due autori mettono in guardia, però, dal considerare l’intricata e intrigante storia di Pallache come un caso unico, perché soprattutto tra i moriscos cacciati dalla Spagna e costretti a un’esistenza in esilio, le strategie messe in atto per assicurare la sopravvivenza e magari la prosperità alla propria famiglia prevedevano l’assunzione di identità culturali e religiose assai varie e, a volte, apparentemente in contraddizione fra loro. Il che consente almeno una duplice constatazione: da una parte, queste figure di marginalizzati sembrano davvero aver costituito un preludio alle identità cangianti della modernità.

Dall’altra, però, ci portano a riflettere sul concetto di identità individuale e collettiva così come viene discusso anche per il passato. Scrivono infatti García-Arenal e Wiegers: «Molti degli studiosi del giudaismo iberico dopo il 1492 (data dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna, e della conseguente diaspora) hanno deciso di utilizzare categorie forti come quella di ‘nazione’ o ’popolo ebraico’. E tuttavia la varietà e l’alternanza, non solo delle biografie personali e delle scelte individuali di ogni membro di un gruppo religioso seppur minoritario, ma anche i diversi gradi di adesione interna ed esterna a una confessione religiosa, e l’infinita possibilità di combinazioni in cui un’appartenenza confessionale e culturale si coniuga con circostanze politiche e sociali determinate, ci lasciano scettici sulla validità ermeneutica di categorie così generali e così caratterizzanti nella definizione di un gruppo. In ogni caso per noi non sono state utili o sufficienti…». In questo modo, quella che parte come la vicenda di un individuo o di una famiglia diviene anche una lezione di metodo storico, un modo per guardare a temi globali attraverso storie particolari.