0,69 per cento. Fedele alla linea di una sinistra divisa e frammentata anche in Tunisia, Hamma Hammami ha sempre la risposta pronta e lo sguardo lucido, anche quando si tratta di commentare la bruciante sconfitta elettorale del 2019: «Dopo il 25 luglio però i sondaggi ci danno in crescita», afferma sorridendo.

Una storia militante che inizia negli anni ’70, fatta di arresti, torture e pestaggi da parte della polizia sotto i regimi di Habib Bourguiba e Ben Ali, il segretario del Partito dei lavoratori da cinquant’anni è ancora uno dei volti più riconoscibili del paese.

Lui, come la moglie Radhia Nasraoui, avvocata e militante per i diritti dell’uomo, una delle figure che più si è battuta contro l’uso sistemico della tortura. Una famiglia di lotta e (quasi) di governo.

«Sono stato arrestato più volte, questo mi aiuta a comprendere la situazione oggi – commenta Hammami nel suo studio al quartiere generale del partito nel centro di Tunisi, lontano per un momento dal caldo torrido della città – Siamo passati da più esperienze, non posso sbagliarmi. Nel 1987 tutto il mondo era con Ben Ali. Tranne noi comunisti, eravamo clandestini, ci dicevano che eravamo pazzi, che Ben Ali era per la democrazia ma noi ripetevamo che dovevamo fare attenzione, dovevamo fare un’analisi di classe».

La classe. Una parola che ritorna spesso nei discorsi di Hamma Hammami quando affronta quello che è successo in Tunisia un mese fa. Il 25 luglio scorso il presidente della Repubblica Kais Saied, dopo diverse manifestazioni in tutto il paese contro il governo e il partito di maggioranza Ennahda, ha decretato lo «stato di pericolo imminente» applicando l’articolo 80 della costituzione.

Questo ha portato il responsabile di Cartagine a sospendere il parlamento, sciogliere il governo, togliere l’immunità ai deputati e conferirsi pieni poteri esecutivi, legislativi e giudiziari per almeno 30 giorni.

Una mossa giustificata da una crisi politica, economica, sociale e sanitaria che da mesi attanaglia il paese. La clessidra dei 30 giorni scade domani. Intanto, mentre a Tunisi si è registrata la temperatura più alta di sempre con 49 gradi, l’organo istituzionale che dovrebbe decretare la fine dello stato d’eccezione (la corte costituzionale) non esiste e Saied ha affrontato questo periodo arrestando deputati, giudici e uomini d’affari legati a casi di corruzione, il dossier più caro al presidente; ha promesso la nomina di un governo mai arrivato; ha fatto evacuare i locali dell’Istanza nazionale di lotta contro la corruzione, presidiata adesso 24 ore su 24 dalla polizia, e ha affidato all’esercito la campagna vaccinale dove, in due giorni di porte aperte, sono state somministrate più di un milione di dosi ai giovani.

Le organizzazioni della società civile hanno reagito facendo appello a un foglio programmatico chiaro e a un ritorno celere al percorso democratico. Il sindacato più importante, l’Ugtt, ha dato un appoggio condizionato dopo aver tentato nei mesi scorsi, invano, di convocare un dialogo nazionale per uscire dalla crisi.

Ennahda, il movimento di ispirazione islamica e il più colpito dalla decisione presidenziale, attraverso il suo leader Rached Ghannouchi ha prima fatto appello a un golpe per poi aspettare le mosse di Saied.

Chi fin da subito ha condannato l’azione del presidente è stato Hammami: «La prima volta che ho detto che eravamo vicini a un colpo di forza è stato il primo maggio. Saied si è appoggiato sull’esercito e sull’apparato securitario e non ha applicato il contenuto dell’art. 80. Non lo si attua in questo modo, è andato contro le conquiste democratiche di questo paese presenti nella costituzione del 2014 unendo tutti i poteri».

Esporsi pubblicamente significa entrare a gamba tesa in un dibattito estremamente polarizzato e scivoloso. Hammami però non ha dubbi: «Ennahda è il primo responsabile di questa situazione ma Saied non è la soluzione. Noi siamo marxisti e sappiamo che è la classe che governa, i partiti politici sono i servitori. Il presidente non ha colpito i grandi interessi. Neanche a livello della corruzione, non li ha toccati. Serve un cambiamento radicale, economico e sociale: serve una seconda rivoluzione».

Prima di congedarsi dal suo ufficio, il segretario del partito che nacque in clandestinità nel 1986 ci tiene a mostrare un vecchio foglio di giornale: «L’11 novembre 1987, quattro giorni dopo il colpo di Stato, l’87% della popolazione era con Ben Ali – sorride – Oggi l’87% dei tunisini sembra essere con Saied. Quello che fa ridere è che le persone sostenevano Ben Ali perché credevamo di passare a una democrazia. Oggi le persone applaudono Saied perché vogliono passare da una democrazia corrotta a un regime presidenziale, forte, repressivo e autoritario. Questa è la storia».