Cinque i giorni che mancano al fischio d’inizio, come le ore che ci separano dal Brasile e le coppe che i verdeoro hanno già in bacheca. Cinque come i continenti collegati e vagamente rappresentati, al netto della mafioseria geopolitica della Fifa e della scarsa mobilità gerarchica, quella che ad esempio ha lasciato fuori dalla porta Capo Verde (nel match qualificazione Varela in campo malgrado la squalifica, manco avesse fatto un gol di mano). Una sola esordiente, stavolta, o forse due: la Bosnia ed Erzegovina di Dzeko e Pjanic. Ma è un debutto per modo di dire (la Jugoslavia vanta 14 partecipazioni alla fase finale), un po’ come se per Russia 2018 si qualificasse la Crimea. Sempre meglio di chi per andare al Mondiale se ne è dovuto comprare uno (vedi Qatar 2022 e la regola che qualifica di diritto il paese organizzatore).

Potremmo cavarcela tifando come al solito per le africane. Lo diceva già Omar Sivori negli anni ’80, che il futuro del calcio è loro. Ma come è già successo per il passato, devono essersi dimenticati di restituirglielo. Per un’esperienza davvero contro-natura si potrebbe allora tifare contro il Brasile. Che non vuol dire “gufare”, nella speranza che un flop dei verdeoro riporti la gente in piazza a reclamare il cambiamento promesso (tesi tuttavia non peregrina). Si può amare il Brasile arrabbiandosi con lui (e con la Fifa), indignati dal tiqui taca dei contrasti e degli squilibri sociali.

Come tanti ragazzi brasiliani in movimento, pazzi per il futebol, ma mica scemi. Amare il calcio può equivalere a detestare chi lo governa? Hai voglia…

Parlando d’amore, torna alla mente l’omonima canzone (Falando de amor) di Tom Jobim, portata al successo dal grande Edu Lobo. Il testo dice che quando passa lei «nella strada bagnata dal sole» lui si dimentica di tutto, «persino del calcio». Persino, a sottolineare l’enormità della cosa. Oggi un altro Edu, Edu Krieger, canta di come sia giusto dimenticarsi «persino del calcio» per gli espropri di beni comuni e diritti che hanno portato a questo Mondiale. E per una dimenticanza imperdonabile come quella che auspica, si scusa con chi di dovere: Neymar, il talento più atteso della seleção.

È il brano del momento, Desculpe Neymar, con il suo scarno ed elegante saliscendi di chitarra choro, agli antipodi del divertimentificio smargiasso che già inonda il mondo tra uno spot mondiale e l’altro. Mentre gli spalti promettono una musicalità più dinamica rispetto all’inquietante fissità delle vuvuzela sudafricane, Desculpe Neymar entra di diritto nella corposa playlist che nel tempo ha reso più comprensibile e ballabile che mai il calcio brasiliano.

«Scusa Neymar, non tiferò per voi stavolta». Più ospedali e meno stadi, canta Krieger sconsolato, e si fotta la Fifa che pensa solo ai suoi standard. Ma aggiunge anche che la sua è solo un’opinione, non sarà di alcun intralcio alla passione del tifoso. È la vecchia tesi di Sócrates: potremo dirci Campioni quando avremo un Brasile più giusto; nel frattempo il tifoso ha sempre ragione. Soprattutto se non ha i soldi per andare alla partita.