Come una trasmissione radiofonica della notte, la nuova rubrica «La migliore offerta» parlerà di collezioni, persone e storie che ruotano attorno al mercato dell’arte, avvicinando un mondo spesso visto, da sinistra, con snobismo. E invece si tratta, prima di tutto, di cultura. Per esempio, chi era a Londra a inizio mese poteva recarsi a una fiera ormai divenuta di punta per quel che riguarda l’arte antica. Frieze Masters (6-9 ottobre) ha raggiunto una posizione di vertice perché i capitali puntano al contemporaneo, e allora gli antiquari hanno pensato bene di presentarsi in gran spolvero, nella speranza di convincere qualche habitué di Gagosian o di Saatchi a lanciarsi sul Seicento. Nello stand di Moretti, c’era un dipinto di Pietro Novelli (1603-1647) che in pochi hanno visto finora, e che avrà messo i brividi a più di uno spettatore. Un Prometeo che crea l’uomo. Il vecchio, barbuto come gli eremiti di casa Professa, ha rubato il fuoco dal carro del Sole, che guidato da Apollo sparisce in un cielo oro e grigio, da tempesta di sabbia. È consigliato da una Minerva, che cammina sulle nubi; poi vacche e cavalli pascolano indisturbati, nel fondo. La creazione avviene da un legnetto sfregato sotto il capezzolo e dall’argilla l’uomo esala il primo respiro: il pugno si apre, la gamba si muove. L’espressione del creato, incatenata al fremito tipico delle Rosalie del pittore, o quella del creatore, spillano caravaggismo napoletano ed effusioni vandyckiane. Il Monrealese aveva sempre ben mischiato i due registri: il sano ricorso alla realtà non gli impediva certo di pretendere eleganza. A sfogliare le committenze ricevute, Novelli avrà accettato una condizione che i tempi gli ponevano. Doveva dipingere un dramma quasi sempre sacro, ed è per questo che sembra di vedere un Apostolo e un Adamo, anche se stavolta il tema proprio non potrebbe essere più profano. Eppure, anche nella Palermo di inizio Seicento, fra prìncipi Moncada e Valguarnera, non saranno mancati i corrispettivi di quel geniale collezionista messinese, don Vincenzo Ruffo, che teneva corrispondenza con Rembrandt e con Guercino. Dipinti cólti come l’Aristotele che contempla il busto di Omero dell’olandese (Metropolitan), o come la Talia che incorona Epicarmo (Palazzo Abatellis), di un’altra biscia sicula, l’ultra-intellettuale Agostino Scilla, attestano di mecenati che si sentono figli dei Greci, e parlano di dèi e di muse come altrove si discettava di cavalieri e damigelle. Sfuggire al Medio Evo cortese e al Rinascimento cortigiano forse significò inventarsi una tradizione erudita che si riallacciasse all’Antico rivendicando una discendenza diretta dalle storie di Proserpina e di Diodoro. E quando all’inizio dell’Ottocento si presenta l’occasione di scrivere una Storia delle Belle Arti in Sicilia – era mancato un Vasari –, chi si cimenta, l’erudito Agostino Gallo, non ha dubbi nel riconoscere in Pietro Novelli il ‘Raffaello siciliano’. Ne deriva una visione della storia artistica tutta spostata sul Seicento e sui secoli a venire. Ma nonostante ciò, quando Gallo elenca, nel suo Elogio del Monrealese (1830), i dipinti «fuori di Sicilia», si vede subito che sono pochissimi rispetto alle tante opere sparse per le parrocchiali dell’isola. Gli appetiti post-napoleonici dei collezionisti stranieri si concentravano su Roma o su Venezia, e al massimo spogliavano Napoli e la Sicilia di antichità. Era una fortuna per studiosi-raccoglitori come Gallo, assai interessato ai disegni, e in un album di opere grafiche raccolte da lui, si conserva anche lo schizzo preparatorio al Prometeo passato ora a Londra. Più bello del dipinto, lo scatto del titano verso l’uomo di argilla è dinamico e quasi brusco, e un cane sta in mezzo a separare i personaggi. Viene quasi voglia di chiedere alle istituzioni siciliane di fare uno sforzo economico: il dipinto avrebbe una casa degna di sé a palazzo Abatellis, al Diocesano di Monreale o, meglio ancora, al Diocesano di Palermo.