I Le sorprese migliori del festival 2020 non sono finora state nella più appariscente sezione Premiere – quella per cui le star del cinema indie si spingono a Park City, in varie mise da costoso dopo sci- bensì in angoli meno battuti del programma. Titoli attesi, e spesso già dotati di distributore, come Worth (sul fondo per il risarcimento delle vittime del 9/11), The Last Thing He Wanted (Dee Rees adatta Joan Didion), Falling (regia di Viggo Mortensen), Downhill (remake hollywoodiano del film di Ruben Ostlund Force Majeure) o Lost Girls (esordio alla fiction della documentarista Liz Garbus, con una storia vera di serial killer) ci sono infatti sembrati piatti, film non necessari.

MOLTO PIÙ ECCITANTE, e praticamente nascosto in Next, la sidebar dove da sempre il festival mette cose che giudica troppo sperimentali, è The Killing of Two Lovers, un doloroso, limpidissimo, melodramma rurale di Robert Machoian -californiano, fotografo, affermato cortista verité (il suo Minors vinse un premio al festival dell’anno scorso) e docente alla Brigham Young University in Utah, dove è girato il suo film. Non lo Utah dei resort sciistici arrampicati su montagne maestose, come Park City, ma lo Utah di una contea povera, di case sparse come a vanvera, su un altopiano brullo, strisciato di neve sporca e di trailer homes decrepite. David (Clayne Crawford) e Nikki (Sepideh Moafi) si sono sposati giovanissimi, hanno tre bambini piccoli e una teenager, e stanno cercando di salvare il loro matrimonio con un periodo di separazione, durante il quale possono avere altre storie.

Nikki, la più professionalmente realizzata dei due (è avvocato, mentre lui ha abbandonato le ambizioni musicali per mantenere la famiglia con lavoretti di manovalanza qua e là) ha infatti iniziato una relazione con un collega (Chris Coy), la cui presenza complica il fragilissimo patto di non ostilità della coppia. Il racconto Machoian è terso e paziente. Come le immagini del direttore della fotografia Oscar Ignacio Jimenez, che osservano il farsi e disfarsi della famiglia nell’inquadratura -in campo lungo quando David porta i bambini a giocare al parco o al bus della scuola; quando i piccoli distruggono selvaggiamente il mazzo di fiori portato a mamma dal nuovo pretendente; o molto ravvicinato, quando tutti si affollano nella cabina del suo scassato pick up. L’amore, la paura e le tensioni che si sovrappongono nello spazio piccolissimo. Il fatto che tre dei figli di David e Nikki siano interpretati dei figli dello stesso Machoian, e che sia suo padre a interpretare il padre di David, aggiunge un livello di ulteriore intimità al film. Il cosiddetto happy ending si traduce in un momento di profonda, lancinante malinconia.

ARRIVA dal cortometraggio (d’arte) anche un’altra dei registi di punta della selezione di quest’anno, la trentaquattrenne Garrett Bradley, il cui primo lungo, Time, è il film più notevole del concorso documentario e uno dei migliori del festival. Come nel caso di The Killing of Two Lovers, anche Bradley -newyorkese trapiantata a New Orleans- lavora su una dimensione regionale. Girato in luminoso bianco e nero che evoca l’estetica dei primi, splendidi, film di Charles Burnett, però aggiornata al terzo millennio, è il racconto di una donna, Fox Rich.

Un racconto che Fox (bellissima, gli occhi a mandorla, le curve abbondanti e dolci, il piglio di un performer tra leader religioso e genio del marketing) mette in scena spesso in prima persona, guardando in macchina. Ha iniziato a riprendere se stessa e la sua famiglia (tre figli), due decadi fa, quando suo marito è stato incarcerato per rapina, e condannato a sessant’anni di carcere. Quegli home video (originariamente a colori), realizzati, in cui la vedi giovane, incinta dei gemelli, sono parte del ferreo meccanismo di sopravvivenza che Fox ha creato per tenere insieme la sua famiglia e il rapporto con il marito dietro alle sbarre.

BRADLEY ha un occhio elegantissimo, attento al dettaglio – di una porzione del volto, dalla nuca, di una mano, una caviglia, un taglio di capelli- il suo uno storytelling che preferisce le ellissi alla linearità, e lasciare spiegazioni troppo dettagliate nello spazio tra fotogrammi. In un dolce, malinconico, a tratti frustrante (le telefonate ai politici locali o all’ufficio del giudice) andirivieni tra passato e presente, intravediamo che, dopo l’arresto e un periodo in prigione anche lei, Fox si è trasferita a New Orleans, dove è diventata una business woman, che concentra indefessamente il suo tempo libero nel tentativo di far commutare la sentenza grottesca di suo marito e di tenerne viva la memoria con i figli. Anche se si tratta di una sagoma di cartone, creata e ritagliata da una vecchia fotografia, papà sorridente, li accompagna di casa in casa. Abilmente tessuta nella grana del film, senza predicozzi o paternalismi, la tragedia di un sistema criminale che, quando si tratta di afroamericani, funziona ancora come un’altra forma di schiavismo.