57 opere pubbliche per un costo complessivo di 83 miliardi, da gestire sotto la guida di 29 commissari. Si tratta prevalentemente di opere ferroviarie e di progetti preesistenti che dovrebbero avere una ricaduta occupazionale di 68 mila unità di lavoro medie annue nei prossimi 10 anni. Questa la sintesi di un documento del ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili del 16 aprile. Un assaggio, metodologicamente corretto, del PNRR, elaborato dal Ministro Giovannini.

Ma solo un assaggio perché il piano completo di utilizzo dei 200 miliardi europei sarà presentato in Parlamento nei prossimi giorni a ridosso della sua trasmissione agli organismi europei. È possibile che un progetto di enorme portata come quello del Recovery Plan venga reso noto al Parlamento ed all’opinione pubblica negli ultimi tre giorni utili?

Si rischia di apparire come vedovi di Conte se si esprime il timore che l’assenza di una costruzione collettiva e pubblica di progetti che hanno l’ambizione di modificare radicalmente il modello di sviluppo attuale, possa avere conseguenze negative sulla qualità dei progetti e sui risultati attesi? Giuseppe Provenzano vice di Letta ha informato che, poiché il Pd deve essere, come hanno chiesto gli iscritti, il partito del lavoro, “abbiamo proposto un meccanismo che vincoli l’accesso ai benefici del Recovery agli incrementi occupazionali su giovani e donne”.

In questa stessa direzione, sulla Stampa di ieri, Linda Laura Sabbadini ha rilanciato l’esigenza di investimenti negli asili nido, nelle infrastrutture sociali di assistenza per anziani e disabili, e nelle risorse per l’imprenditoria femminile visti come l’occasione storica per recuperare il ritardo accumulato in decenni sull’occupazione giovanile e femminile e la parità di genere. “Altrimenti perché parlare di Next Generation EU?”.

Insomma il problema è squadernato davanti a noi. Faremo debiti consistenti per produrre la svolta che serve. Oggi possiamo farli con l’input europeo e la sospensione dei trattati. Ma, come era prevedibile, già si comincia a pensare al dopo, al ripristino graduale dei vincoli di bilancio ed alla via della crescita. Quindi se debiti sono che siano “debito buono”.

Ma che significa questo oltre lo slogan? Che produca crescita, si dice ripescando un termine accantonato dalla crisi per collegarlo alla sostenibilità del debito. E che crei occupazione si dà quasi per scontato. Ma così non è. Non c’è più automatismo tra risorse attivate e crescita ed occupazione. E se qualcuno pensa che basta investire per recuperare quanto perso per la pandemia serve molto, molto di più dei due giorni utili che restano per varare i progetti.

Innanzitutto occorre superare l’idea che, dopo una crisi, bisogna puntare a tornare al prima. Questa logica ha prodotto finora un solo effetto: siamo, tra alti e bassi, ancora fermi ai livelli di venti anni fa. Serve, quindi, di più ed oltre. Serve l’ambizione (Fubini legge così le scelte di Biden) di ricollocarci non dove eravamo, ma dove avremmo dovuto essere. Quantitativamente e qualitativamente.

E serve sullo specifico terreno occupazionale non solo una generica indicazione di lavori aggiuntivi, ma della loro distribuzione per sesso, età, distribuzione territoriale, qualità e livelli di stabilità del lavoro. Tante, tante, forse troppe cose? Può darsi. Ma senza questa ambizione e questa visione forse non vale tanto la pena di indebitarci per tornare tra pochi anni al prima del rapporto debito Pil e solita litania tra spreconi e frugali.

Speriamo che alcune di queste esigenze trovino riscontro nei documenti che saranno presentati. Altrimenti meglio riservarsi piccoli margini temporali per recuperare il tempo perduto e/o programmare approfondimenti successivi.

Il varo di un Piano tanto caricato di speranze ed ambizioni non può essere trasformato nell’ennesimo spettacolo di un Parlamento che lo liquida come un obbligo burocratico approvato per non fare brutta figura con l’Europa e non farla fare al leader Draghi. La farebbero il Parlamento ed il Paese.