La fine della radio è una delle molte profezie mai avveratesi che hanno accompagnato l’avvento dell’era digitale. A smentire come il potere della comunicazione via etere sia tutt’altro che al tramonto è, ad esempio, la vicenda relativa all’assegnazione delle frequenze Am nel nostro paese. Comunemente definita come «onde medie», questa porzione dello spettro elettromagnetico è oggi al centro di una battaglia (per ora) sotterranea fatta di regolamenti, graduatorie, ricorsi al Tar e impianti di trasmissione auto-costruiti. Un terreno, su cui si stanno addensando contendenti e interessi tra i più differenti: grandi imprese del mondo della radiofonia, aspiranti radio comunitarie, istituzioni europee, radioamatori e pirati dell’etere.

Le frequenze Am, si differenziano dalle più popolari FM per una serie di proprietà tecniche. Prima tra tutte, la capacità di trasmissione: le onde radio veicolate mediante la «vecchia» tecnologia Am possono raggiungere distanze nettamente superiori rispetto a quelle propagate attraverso Fm. Certo, queste ultime hanno dalla loro una qualità del suono maggiore ma, proprio per questo motivo, utilizzano frequenze ormai affollatissime. È infatti noto come le grandi emittenti radiofoniche facciano a gara tra loro per occupare questa sezione dello spazio elettromagnetico considerata più «pregiata»: facendo leva su trasmettitori potenti e costosissimi – sia in termini di dispendio energetico che di costo dell’hardware – pompano fino all’inverosimile il loro segnale, nel tentativo di coprire quello delle loro concorrenti.

Al contrario, il processo di broadcasting Am richiede trasmettitori non particolarmente potenti e, per questo motivo, dal prezzo e dai consumi assai ridotti. Per via di queste loro caratteristiche, le onde medie potrebbero aprire la strada a sperimentazioni culturali e politiche praticabili dal basso: radio comunitarie o universitarie, emittenti di quartiere o stazioni radiofoniche non necessariamente costrette a modificare il palinsesto a seconda dei desiderata degli inserzionisti pubblicitari.

LE FREQUENZE Am sono parte integrante dell’infrastruttura radiofonica di molti stati europei. Nel Regno Unito il legislatore garantisce una fascia protetta per le emissioni a bassa potenza: alla fine del 2016 sono state diverse le assegnazioni di frequenza riservate alle radio comunitarie. In Grecia sono numerosissime le radio ad onde medie che, a fronte di una sostanziale tolleranza delle autorità elleniche, trasmettono in maniera non autorizzata. Per quanto riguarda l’Olanda invece, ogni città ha delle frequenze liberamente utilizzabili riservate alla bassa potenza.

Tutt’altro paio di maniche è la situazione italiana. In passato dominio esclusivo della Rai, le frequenze Am sono oggi pressoché inutilizzate, anche a causa del vuoto legislativo registrato fino a questo momento in materia. Sebbene chiunque abbia, almeno in via teorica, il diritto di trasmettere, a nessuno è consentito farlo senza previa autorizzazione. Una situazione paradossale, a cui l’Unione Europea aveva chiesto all’Italia di porre rimedio nel 2013, minacciando l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti del nostro paese qualora le richieste di Bruxelles non fossero state accolte. La risposta positiva del Ministero dello Sviluppo Eoconomico (Mise) arriva nell’agosto 2016, quando Palazzo Piacentini apre finalmente un bando pubblico per l’assegnazione delle frequenze in questione. Tutto è bene quel che finisce bene? Non proprio.

LA PRIMA TORNATA del bando si conclude il 30 settembre dell’anno scorso. Il risultato è un sostanziale fallimento: a fronte di un altissimo numero di richiedenti (circa 800 le domande inoltrate), vengono assegnate solo due frequenze. Tutto da rifare per il ministero che a marzo pubblica non uno, bensì due nuovi bandi riservati agli scartati del primo giro. Si tratta di una mossa che però non sembra essere risolutiva e lascia intatte le criticità che avevano punteggiato il primo bando. Le regole dettate dal Mise per definire la titolarità di assegnazione delle frequenze sono poco chiare, e allo stesso tempo escludenti.
Ad esempio, nella graduatoria la «potenzialità economica» del richiedente viene valutata 10 punti. Tradotto: chi non è in grado di presentare un business plan – ovvero tutti quei soggetti che non siano già delle consolidate realtà commerciali – viene penalizzato. Tra gli altri requisiti, c’è poi la richiesta di un attestato di affidabilità di una banca: improbabile che questo venga ottenuto da un’associazione o da una radio di quartiere. Proibitivo anche un altro dei paletti indicato dal Mise, ovvero il mantenimento a spese del richiedente del sito trasmissivo: tenuto conto che questi possono essere stati costruiti in passato, magari per la Rai, risulta davvero difficile immaginare che una piccola radio possa sobbarcarsi tale spesa. Infine c’è il problema della strumentazione.

NEI BANDI non si parla di autocostruzione: una pratica che, vista la scarsa potenza richiesta dal broadcasting Am, sarebbe alla portata delle tasche di tutti. Al contrario, le linee guida stabilite a Palazzo Piacentini accennano all’omologazione degli apparati: un problema non di poco conto se si considera che in Italia non esistono produttori di trasmettitori Am.

Insomma, se nel resto del mondo le onde medie sono cavalcate da attori indipendenti, le scelte operate fino a questo momento dal ministero sembrano remare nella direzione opposta, scoraggiando la partecipazione di quanti non abbiano già le spalle coperte sul piano economico. Basta dare un’occhiata all’elenco delle società ammesse alla procedura di selezione per rendersene conto. Tra queste figurano ad esempio Monradio e Incentive Promomedia. La prima è una controllata di Radio 101 (a sua volta facente parte del gruppo Radio Mediaset) mentre la seconda è una compagnia pubblicitaria attiva fin dal 1994 nell’ambito del marketing orientato alla grande distribuzione (ovvero le radio nei supermercati). Nella lista fanno capolino anche altri colossi (come Rtl 102.5) mentre sono veramente pochi i nomi riconducibili al mondo dell’associazionismo.

«A mio avviso i soggetti emergenti in graduatoria non superano il 25 per cento del totale. Per il resto si tratta di realtà commerciali o comunque di società che già si occupano di comunicazione. Non c’è nessuna apertura alle radio comunitarie». A parlare è Andrea Borgnino, uno dei più apprezzati esperti in Italia nel settore della radiotelegrafia. Autore di diversi saggi sull’esperienza delle radio pirata e conduttore su Radio3 Rai della rubrica «Interferenze» (trasmissione interamente dedicata al mondo della radio), Borgnino definisce le scelte operate dal ministero come «un’occasione perduta. Il risultato saranno brutte radio che, temo, non ascolterà nessuno».

LA PARTITA non è ancora chiusa. La poca chiarezza nell’assegnazione delle frequenze fa infatti presagire una pioggia di ricorsi al Tar volta a mettere in discussione tutta la legittimità del procedimento adottato dal ministero. E a mettersi in mezzo sono anche alcuni gruppi di hacker sparsi nello stivale. Tra il 15 ed il 18 giugno si è infatti tenuto in Val Susa la ventesima edizione dell’Hackmeeting, il raduno annuale delle controculture digitali. Durante il meeting sono stati tenuti seminari per discutere quale valore politico possono assumere le onde medie in questa fase storica. E workshop dedicati all’autocostruzione degli apparati Am, qualora il Mise non sia disposto a rivedere le sue decisioni.