La radice comune tradisce una certa parentela etimologica, di matrice greca, tra musica e museo: se la prima è l’arte delle Muse, il secondo ne è il luogo sacro. I loro incontri, sempre più frequenti, ricordano proprio certi ritrovi tra lontani consanguinei che dopo un po’ non sanno più cosa dirsi. Una convivenza complicata: il museo è luogo di silenzio, orientato all’esposizione visiva e allo sguardo contemplativo; il suono, quando non si ferma sulla soglia, la varca in punta di piedi. Le canzoni non si possono esporre una accanto all’altra come dipinti e sculture. Certo, in quanto fenomeno culturale la musica — e in particolare la popular music — va ben al di là dell’aspetto sonoro, combinandosi con elementi tecnologici, letterari, commerciali e multimediali di grande valenza visuale. Ma è pur vero che, non potendo metterne in mostra l’essenziale, i musei ripiegano spesso e volentieri sull’effimero: è proprio in quel campo che le coordinate di un pop alla ricerca di legittimazione culturale intersecano quelle di un’istituzione museale che pop vuol diventare.

QUEST’ULTIMA dovrebbe essere l’autorità chiamata a riconoscere la popular music come patrimonio culturale, ratificando quel processo di heritigization di cui parlano studiosi come Marion Leonard in riferimento alla rappresentazione e alla canonizzazione della musica attraverso collezioni, documentari, archivi; si ritrova invece a dover condividere l’autorità con il pubblico, passando dal ruolo di legislatore a quello di interprete: siamo già nell’era del post-museo? La questione si ripresenta con la mostra Lucio Dalla – Anche se il tempo passa, curata da Alessandro Nicosia per Fondazione Lucio Dalla e Cor – Creare Organizzare Realizzare, e inaugurata il 4 marzo presso il Museo Civico Archeologico di Bologna. Un’iniziativa, manco a dirlo, fortemente legata a una città che è sempre più museo diffuso: solo pochi mesi fa il palazzo comunale aveva accolto nella Biblioteca Salaborsa il Museo della Popular Music, nato da un’idea di Paolo Fresu, veicolo di identità culturale cittadina in cui confluiscono il Dams e il punk, Nilla Pizzi e Francesco Guccini, Roberto Roversi e Lucio Dalla. In un intenso traffico di anniversari, gli ultimi due — entrambi scomparsi dieci anni fa — affiancano Pasolini nella gigantografia che domina Piazza Maggiore, a due passi dal Museo Civico e dalla casa di Lucio in via d’Azeglio, a sua volta museificata.

SOGGETTIVITA’ e nostalgia sono le cifre di una linea curatoriale che tenta di far dialogare lo spazio con le tante anime di Dalla, articolando il percorso in undici sezioni — dedicate a vita privata, musica, cinema, teatro, tv e tanto altro — e cercando di far convergere i tre approcci narrativi tipici della curatela pop, rispettivamente basati su storie, concetti e oggetti.
Se i primi passi lasciano prefigurare un racconto cronologico lineare, il repertorio materiale guadagna il centro della scena dopo pochi metri. Documenti e oggetti personali, strumenti musicali, capi di abbigliamento, libri, dischi, fotografie, locandine e ritagli di giornale. Se cimeli come il primo clarinetto, e ancor più i manoscritti di Lucio e dello stesso Roversi, sono a tutti gli effetti preziosi strumenti di approfondimento critico oltre che simboli dell’espressione poetico-musicale, è difficile non leggere un istinto feticista nella teca che raccoglie i cappelli e gli occhiali del compianto cantautore come reliquie di un santo, con tanto di sfondo purpureo.
L’aura che Walter Benjamin reputava ormai perduta viene riattivata attraverso la relazione contestuale con l’artista, che però non sempre è sufficiente a sottrarre l’oggetto alla sua banalità. I tanti giocattoli «a cui Lucio era molto legato» — così reiterano le didascalie — non ci danno alcuna informazione o interpretazione aggiuntiva riguardo alla sua arte. Men che meno la motocicletta o gli abiti di Armani goffamente indossati dalle sagome lignee. Come in altre simili esperienze espositive a soggetto biografico-musicale, ci si ritrova in una Wunderkammer concepita strizzando l’occhio alla nostalgia e al voyeurismo dei fan, appagati proprio dal feticismo di quei reperti che meno hanno a che fare con la pratica artistica. La Nadia Vandelli-Eleonora Giorgi di Borotalco, che fa capolino da una vecchia locandina, andrebbe senz’altro in estasi mistica.
Riaffiora un’altra assonanza tra radici, già sottolineata da Adorno, meno etimologica ma altrettanto rivelatrice: quella tra museo e mausoleo, inteso come ultima dimora dell’oggetto con cui né il possessore né l’osservatore hanno più relazioni vitali. È un destino usuale, per questo tipo di iniziative, sin dall’apertura della Rock ‘n’ Roll Hall of Fame nel lontano 1983. La loro tendenza è ancora quella di rafforzare i canoni esistenti, le narrazioni dominanti, i grandi nomi e i volti familiari, come quello di Lucio. La musica resta ancora sulla soglia: da lì sfumano le note di Come è profondo il mare, L’anno che verrà, Balla balla ballerino, dissolvendosi in frammenti di concerti, vecchie interviste (quasi totalmente assenti, peraltro, le voci dei suoi musicisti), apparizioni su piccoli e grandi schermi.

E COSI’, il suono più significativo è proprio quello dei visitatori, che integrano le didascalie con ricordi e commenti soggettivi. C’è chi interpreta il testo di Caruso e chi indugia sulle copertine. Alcuni indicano altri volti e luoghi familiari. Facile immergere ogni scorcio cittadino nei versi e alla musica di Dalla: «Chi non conserva, qui da noi, un suo ricordo, un aneddoto, un incontro che parla di lui nell’intrico di strade, portici, panchine e piazze?», scrive Andrea Faccani, presidente della Fondazione.
Il valore dell’iniziativa, forse, è da ricercare proprio nella stretta relazione con il territorio, tanto da chiedersi come dialogheranno area espositiva e ambiente esterno quando la mostra sarà trasferita a Roma (dal 22 settembre) e poi a Napoli e Milano in occasione dell’ottantesimo compleanno di Lucio, nel 2023.
Ma per ora il percorso si conclude aprendosi allo spazio che lo circonda. Una volta usciti su via dell’Archiginnasio non è facile dire dove finisce il museo e dove inizia la città. Via d’Azeglio è a pochi metri: al numero 15 le luci di casa Dalla sono ancora accese e il citofono conserva quella vecchia targhetta, «Comm. Domenico Sputo». Anche se il tempo passa, l’immagine di Lucio è ovunque, e la sua musica risuona tra portici e trattorie, varcando ogni soglia. Dove ricomincia la città, ricomincia il canto.