E’ una rinfrancante boccata etica per la società civile inglese e gallese: omo, etero, diversamente sessuale che sia. Da venerdì è possibile sposarsi secondo il Marriage Act, la legge approvata lo scorso luglio ed entrata in vigore il 13 marzo, che rende i matrimoni fra persone dello stesso sesso giuridicamente identici a quelli fra persone di sesso diverso. E subito si è scatenata una gara fra coppie (un po’ come nei villaggi turistici?) per aggiudicarsi il titolo di primi sposi omosex.

Come Peter McGraith – due figli adottivi – novello sposo del suo partner da 17 anni, David Cabreza alla Islington Town Hall; oppure come Teresa Millward e Helen Brearley, spose a Halifax; o come Sean Adl-Tabatabai e Sinclair Treadway, presso la Camden Town Hall. Riunitisi con amici e parenti in vari luoghi di culto e civili a Londra, Brighton e nel resto del Paese, tutti hanno sussurrato le fatidiche sillabe a pochi millisecondi dallo scoccare della mezzanotte, davanti a un drappello di media a volte superiore a quello degli invitati. Per i molti altri che per potersi sposare avevano fatto ricorso a «viaggi della speranza matrimoniale» all’estero, è scattato il pieno riconoscimento della propria unione.

Il passaggio è, effettivamente, epocale. Da quasi cinquant’anni il matrimonio omosessuale nel Regno Unito era illegale. I matrimoni civili sono stati introdotti nel 2005, mentre l’età del consenso è stata equiparata a prescindere dall’orientamento sessuale dal 2001. Questa è un’indiscutibile vittoria del movimento per i diritti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). E sarebbe semplicemente fuori luogo mettere in discussione il fatto che, al netto di anni di lotte e campagne, quella di stamattina sia una società migliore di quella di giovedì sera. Anche solo perché un’altra discriminazione, fondata sul pregiudizio e l’oscurantismo religioso, è crollata e che una parte di cittadini britannici (salvo l’Irlanda del Nord, che continua a essere un imperterrito bastione di omofobia; la Scozia segue la Gran Bretagna) cessa finalmente di sentirsi considerata di serie B.

Ma è pur vero che la società anglosassone ha dalla sua un vantaggio storico e filosofico quanto a tutela dei diritti dell’individuo; e che questa conquista, per quanto sofferta, somiglia parecchio a un adeguamento delle norme giuridiche che regolano il corpo sociale di un paese, in gran parte terziarizzato, a un sentire ormai largamente diffuso. Perlomeno nell’opinione pubblica liberal. Un’autentica manna retorica per David Cameron, che ci si è avventato come un felino, sguainando frasi in bilico fra lo script di Via col vento e la sbrigatività di un Oliver Cromwell, come: «Quando l’amore del popolo è diviso dalla legge, è la legge che deve cambiare».

Certo, rimangono gli ostacoli delle frange conservatrici della Chiesa d’Inghilterra. Ma quest’ultima, primo esempio al mondo di nazionalizzazione del culto, non è un’istituzione solita recare particolari fastidi al proprio leader (la sovrana). E ora che il parlamento si è pronunciato in un modo che dovrebbe inorgoglire Voltaire, l’ex-banchiere (troppo avanti, la Church of England) arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha annunciato che non farà opposizione. A rovinare la festa, un cospicuo venti per cento di opinione pubblica nazionale: hanno dichiarato che, se invitati a una cerimonia di nozze gay, rifiuterebbe sdegnata. Sono certamente tutti lettori del Daily Mail. Come lo sono del Guardian le moltitudini che hanno salutato favorevolmente l’evento.

Ora che, come ha giustamente notato l’attivista gay australiano Peter Thatchell, le coppie omosessuali hanno la libertà di essere tristi tanto quanto quelle etero, e mentre Cameron si bea degli sguardi ammirati dei progressisti di tutto il mondo, sempre più inebetiti dalla favoletta meritocratica del partito conservatore «moderno e dalla pare di chi lavora duro», forse faremmo meglio a non distogliere lo sguardo dai guasti che l’austerity sta infliggendo a tantissimi. Altrimenti si forniscono munizioni a quelli che dicono, forse in modo non del tutto miope, che questo è un governo che usa l’uguaglianza civile a scapito di quella sociale.