«Come si esce dalla crisi?» è una domanda, e la risposta dipende dalla prospettiva di chi osserva. Alcuni studiosi misurano gli effetti delle crisi (economica, sociale ed ambientale) sulle famiglie italiane, forti di statistiche che informano che il numero di quelle povere continua a crescere (oltre il 14% della popolazione, cioè oltre 8,5 milioni di persone, con altre 12 milioni «a rischio»), e che i giovani italiani hanno sempre meno possibilità di incontrare un lavoro (la disoccupazione giovanile è esplosa oltre il 40 per cento). Altri studiosi, invece, concentrano l’attenzione sulla crisi finanziaria del sistema del credito, scoprendo banche «in sofferenza», nonostante i cospicui aiuti ricevuti in questi ultimi anni (su tutti, oltre mille miliardi di euro ottenuti a un tasso irrisorio dalla Banca centrale europea, di cui 255 toccati a quelle italiane), e una costante e continua erosione degli impieghi, ovvero delle risorse che le banche prestano all’economia reale.

Tra questi ultimi studiosi e imprenditori appartengono gli uomini che hanno governato e governano il paese e l’economia italiana negli ultimi anni (da Berlusconi a Tremonti, da Monti a Grilli, da Letta a Saccomanni, da Renzi a Padoan): sono quelli che immaginano di uscire dalla crisi a partire dalle banche, e si affannano per migliorare i ratio patrimoniali dei big del credito a tutti i costi, anche un richiamo formale della Commissione europea, com’è avvenuto nel caso della «rivalutazione» delle quote della Banca d’Italia, che potrebbe generare una plusvalenza miliardaria per i due primi gruppi bancari italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Preferiscono, invece, la prima risposta gli uomini e le donne che che da quasi vent’anni promuovono, animano e coordinano campagne volte a garantite un controllo della finanza nazionale e internazionale, dalla «più antica» sulla Tobin Tax fino all’ultima «Per una nuova finanza pubblica e sociale», che – com’è chiaro a chi segue la rubrica settimanale omonima su «il manifesto» – ha due focus sul debito degli enti locali e su Cassa depositi e prestiti. Si chiamano – tra gli altri – Francesco Gesualdi, Marco Bersani, Andrea Baranes, Antonio Tricarico, e oggi firmano insieme una valida (piccola) enciclopedia delle analisi prodotte dai movimenti sulla finanza. Nel libro, pubblicato da una casa editrice indipendente, le edizioni Alegre, Come si esce dalla crisi non è più una domanda, ma un’affermazione (pp. 256, euro 15).

Perché i palliativi non servono: è il momento di agire. Di navigare lasciandosi guidare da alcune stelle polari. La prima è questa: «Se lo scopo delle privatizzazioni (tutte le privatizzazioni) era lo sviluppo del mercato finanziario, a sua volta la privatizzazione del settore bancario era il presupposto strategico delle successiva privatizzazioni». L’Italia, in questo, si rivelò straordinariamente disponibile. A ricordalo la Corte dei Conti in una relazione del 2010 che poneva l’accento sugli effetti di quasi vent’anni di privatizzazioni. Come infatti spiega Stefano Risso nel suo contributo, nei primi anni Novanta «in Francia la proprietà pubblica del sistema bancario passò dal 36%al 32%, in Germania dal 61,9% al 52% e in Italia dal 74,5% allo 0%”».

La seconda stella polare è indicata da Tricarico: «Il primo – e unico per profondità – mercato globale creato negli ultimi 40 anni è stato quello dei capitali, in seguito alla liberalizzazione monetaria del 1971-73, quindi a quella dei movimenti di capitale negli anni 80, quella bancaria e dei servizi finanziari degli anni 90 e all’ingegneria finanziaria negli ultimi 15 anni, che ha creato l’immenso sistema bancario ombra».

Per riprendere il controllo del sistema del credito e sottrarlo all’eccesso di «finanziarizzazione» degli ultimi anni, però, non basta la «separazione dei risparmi delle persone dalla finanza speculativa». Lo Stato – suggerisce Roberto Errico, tra gli animatori del «Forum per una nuova finanzia pubblica e sociale», ma anche dipendente del Monte dei Paschi di Siena – dovrebbe prendere misure che «superino l’attuale spinta alla concentrazione del settore finanziari (…), atti che comprenderebbero innanzitutto incentivi al ridimensionamento, alla rilocalizzazione ed al delisting (fuoriuscita) dai mercati di Borsa di alcuni istituti di credito, al fine di creare un gruppo omogeneo di banche piccole e legate ai territori di provenienza».

È a partire da questo che sarà possibile discutere in modo serio di una possibile separazione tra banche commerciali ed attività finanziarie delle stesse. Che è solo uno degli antidoti alla crisi, una delle (tante) misure necessarie per arginare la finanza – e le sue derive – che vengono passate in rassegna nei saggi raccolti nel libro. Uno strumento, non il fine, che è spiegare «come si esce dalla crisi» a partire dalla pratiche (campagne, azioni) messe in campo dalla società civile: dall’analisi del debito pubblico, che in qualche modo dev’essersi formato, e che uno Stato o un ente locale potrebbe rifiutarsi di pagare – almeno in parte -, ai limiti necessaria da porre ai paradisi fiscali e ai Paesi a fiscalità agevolata, passando per una tassa sulle transazioni finanziarie, che renda meno attraenti questi «investimenti improduttivi». Un manuale, dunque, per passare dalla teoria all’azione, certi di una cosa: i soldi (per uscire dalla crisi) ci sono, perciò basterebbe la volontà politica di indirizzare al meglio il loro uso.