Può sembrare un libro superfluo, l’ultimo di Claudio Giunta (E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, il Mulino, pp. 312, euro 16). Titolo paolino, sottotitolo apocalittico, verve abituale dell’autore ed enfasi pubblicitaria dell’editore fanno pregustare un pamphlet coi fiocchi: urtante, magari, ma lucido; acido, magari, ma organico e informato; alla peggio, «qualcosa di scelto e prelibato» – diceva Adorno – «per affermarsi, col monopolio della rarità, contro il monopolio dell’ufficio». E invece niente di tutto questo.
Non che il libro manchi di tesi: anzi. Ma occorre avvisare che per estorcere qualche tesi non volatile o qualche diagnosi non umorale a questa congerie di saggi – quasi tutti estemporanei e già editi – tocca farsi strada, per trecento pagine, fra polemiche un po’ troppo facili e banalità un po’ troppo futili, fra aneddoti personali di dubbio interesse e conseguenti generalizzazioni di dubbio fondamento. Dati concreti, mai; analisi storiche o sociologiche nemmeno. E nemmeno opinioni politiche: solo qualche bonario buffetto alla Buona Scuola, perché è scritta maluccio; e qualche scappellotto a D’Alema, perché vuole esibire il suo latino, ma sbaglia gli accenti.

IN COMPENSO, Giunta ci rivela che il mondo è cambiato, che l’istruzione umanistica è in crisi, che tre o quattro amici suoi non iscriverebbero mai i loro figli a Lettere; che «un’aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un’aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa»; che la letteratura è «piacevole», mentre i manuali di storia letteraria sono schematici e nozionistici (a parte quello scritto da Giunta, che Giunta trova assai buono). Scopriamo poi che le matricole universitarie sono spesso impreparate e non sanno nemmeno redazionare una tesina in Word (con «gli accapo opportuni, i rientri opportuni, i margini giustificati»: e qui si sente il professore universitario seccato di dover insegnare cose banali e banausiche). Scopriamo anche che i diplomati al tecnico sono meno preparati dei diplomati al classico, che il reclutamento dei docenti è un problema, che i pedagogisti vendono «fuffa»; e che la burocrazia è brutta, i baroni cattivi, i politici italiani più ignoranti dei politici inglesi («basta confrontare cinque minuti di dibattito parlamentare britannico con cinque minuti di dibattito parlamentare italiano», argomenta l’autore). E così via. Sicché, verso pagina 240, si rischia di trovare provocatorio il consiglio indirizzato «ai giovani studiosi»: «meglio essere sintetici che effusi».
Purtroppo, buona parte del libro è una summa, piuttosto effusa, di malumori generici, quali si possono cogliere al volo in qualsiasi corridoio di scuola o d’università.

EPPURE LE TESI, come si diceva, non mancano, e nemmeno le proposte: basta saperle estrarre dalla caotica congerie. Ed eccole in breve, onde evitare ad altri la fatica di cercarle: l’istruzione umanistica deve tornare altamente selettiva, a ogni suo grado; all’Università servono urgentemente numeri programmati, e a Lettere deve iscriversi chi sa, non chi sceglie a casaccio e non ha i prerequisiti né l’«attitudine» (e qui a Giunta sfugge un termine che piaceva a Gentile); anche perché i corsi umanistici non sono e non devono essere «professionalizzanti»: i laureati in Lettere «non saranno dei professionisti ma degli intellettuali»; e ne bastano pochi: «molti di meno, e di livello molto superiore». Quanto alle scuole secondarie, non è affatto un male se il liceo classico è in crisi: questo vecchio simbolo di status può così diventare «un liceo come gli altri, ma calibrato su quei giovani che vogliono imparare molte cose sul passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica»; pochi giovani, si capisce: e di eletta schiatta. Quanto ai dottorati umanistici, è ovvio che vadano ridotti, e magari riuniti in scuole d’eccellenza, «un po’ come la Normale»; scuole riservate, va da sé, «alle grandi città con grandi biblioteche»; così recupereremo la distinzione fra teaching university (per molti, ma non troppi) e research university (per pochi, pochissimi). Ce n’è anche per gli «studenti part-time», cioè per quelli «che non frequentano»: per loro si potrebbe pensare a tasse d’iscrizione differenziate, concede generosamente Giunta; ma anche a opportune differenze «nel titolo di studio rilasciato».

C’È ANCHE ALTRO, ma fermiamoci qui: si sarà capito perfettamente il senso delle tesi e delle proposte, non proprio tenere, non proprio nuove. «Sfollare i licei», «sfollare le Università»: era un refrain della tradizione liberale pre-gentiliana, quando il rischio della scuola di massa si intravedeva appena. E oggi, tutto sommato, si rimpiange la franchezza brutale di chi allora se la prendeva con «i traditori della zappa e della cazzuola» (parole di Augusto Monti), cioè con i piccolo-borghesi infestanti le scuole d’élite. Oggi vige invece un gentilismo gentile, strisciante, snobistico; certe cose si preferisce dirle a mezza voce, e borbottando: e ciò è sintomatico. Ma si torna a dirle, ed è sintomatico anche questo. Ecco perché il libro di Giunta, nonostante tutto, non è superfluo come pare sulle prime e ha una sua utilità: vale appunto da sintomo.

Certo, chi vuole un pamphlet amaro e severo, ostile a ogni cliché democratico ma consapevole di una storia politica e ideologica sofferta, può leggere con maggior frutto La scuola che vorrei di Adolfo Scotto di Luzio (2013); chi vuole capire i meccanismi di classe costantemente in opera nella scuola italiana può ricorrere a Tutti i banchi sono uguali di Christian Raimo (pubblicato di recente e recensito sulle pagine di questo giornale da Roberto Ciccarelli, ndr), o, ancor meglio, a Una scuola di classe di Marco Romito (2016), che mostra come si decidano e programmino per tempo le presunte «attitudini».
Ma anche questo libro di Giunta non andrà trascurato: perché spiega meglio di altri, pur involontariamente, come elitismo e classismo possano diventare senso comune, e addirittura assumere, tra sfoghi e chiacchiere, banalità e boutades, le sembianze del buon senso.