Nel 1974 Alberto Manzi pubblicò La luna nelle baracche per Salani: in quel libro, raccontava il suo amore per il Sudamerica e rappresentava parte della sua stessa vita. Sono passati diversi anni dalla morte (il 4 dicembre 1977), ma la sua opera innovativa e folle, ancora oggi è fortemente attuale, forse proprio perché Manzi apparteneva all’anima del Sudamerica, pur essendo così calato in quell’Italia cattolica e democristiana che non poteva comprendere il grande lavoro di rinnovamento umano nel campo dell’insegnamento. Nonostante tutto, è certo che quando Alberto Manzi iniziò la sua carriera scolastica, probabilmente non avrebbe mai pensato di diventare il maestro più famoso della penisola.

Il suo primo incarico arrivò nel 1946 a soli 22 anni (era nato a Roma nel 1924), alla fine della guerra. Ma il suo amore per la pedagogia sopraggiunse dopo una laurea in biologia (1947). In seguito, si iscrisse alla facoltà di Filosofia e pedagogia presso La Sapienza, dove si laureò nel 1952 con Luigi Volpicelli. Da quel momento, l’esistenza di Manzi prese una piega molto interessante: dopo aver operato nell’ambito della stessa facoltà nella quale aveva intrapreso gli studi, iniziò una intensa vita nella scuola pubblica. Un settore in cui sarà sempre in prima fila, incaricato di svolgere ricerche sperimentali nel campo della psicologia didattica. Al suo attivo, aveva già un libro per ragazzi come Grogh storia di un castoro (1950), mentre uscirà nel 1955 la sua opera più famosa, quell’Orzowei, che divenne un film. Alberto Manzi, però, non dimenticò la cosa più importante della sua vita, l’attività dell’insegnamento. Così, non soddisfatto di sperimentare a Roma, decise di intraprendere una serie di viaggi che lo porteranno in quel Sudamerica che perfettamente andava descrivendo e narrando. La prima volta sbarcò nella foresta amazzonica: da lì, il passo per tornare annualmente ad insegnare in mezzo a quelle popolazioni fu breve. A raccontare questo Manzi meno conosciuto è la figlia Giulia, nell’incantevole ritratto del padre tracciato in Alberto Manzi, una vita tante vite (Add editore, pp. 224 euro 15).

Una delle sue ultime «avventure» sudamericane si svolse in Bolivia dove il maestro corse in aiuto di don Giulio e di una serie di amici con i quali cercava di risolvere, in minima parte, i problemi sociali di quei luoghi. È così che si apre il volume, con la vicenda di un blitz che ci rivela Manzi come un moderno Yanez, in una tragica avventura che sarà anche l’ultima a cui parteciperà.

In questa storia, c’è lo stesso uomo che sarà portato in televisione dalla Rai democristiana e cattolica del 1960, nel programma di educazione a distanza Non è mai troppo tardi. Alberto Manzi apparteneva a quel piccolo mondo di maestri che proprio in quegli anni provarono a cambiare il sistema incancrenito della scuola pubblica, troppo immersa nel formalismo e nel cognitivismo. Era il tempo di Lorenzo Milani, di Mario Lodi e di Albino Bernardini: Manzi può collocare come un innovatore, un fortissimo positivista romanticamente controtendenza. Ha scritto molto, di didattica, di narrativa, della sua vita, raccontata soprattutto per descrivere il suo amore riservato al Sudamerica in una stupenda trilogia, iniziata con La luna nelle baracche, proseguita con El loco fino a E venne il sabato.

Di lui si potrebbe scrivere altrettanto prolificamente, ma rimandiamo alla lettura del racconto di Giulia Manzi, uscito quasi in contemporanea con la poco interessante bio-televisiva prodotta dalla Rai e naturalmente ridotta a un corollario di un uomo che non voleva scrivere le schede di valutazione e che usava un timbro per non mettere i giudizi. Manzi non si può racchiudere in un Sanremo della tv: troppo riduttivo e troppo poco romanzata fu la sua stessa vita.