È quasi un luogo comune, ma testimoniato da qualsiasi artista si sia esibito sulle scene milanesi, che quello della capitale lombarda è il miglior pubblico di tutta Italia. La spiegazione naturale sarebbe che a Milano esiste una borghesia intellettuale in grado di apprezzare e coltivare il teatro, ma gli stessi artisti rilevano ogni volta che quel pubblico non esprime solo la borghesia , ma anche il ceto medio, i giovani e gli studenti di tutte le classi sociali. Il motivo di questa ricchezza, è dovuto principalmente al fatto che nel settore a Milano esiste da lungo tempo un robusto intervento pubblico, che opera attraverso lo strumento delle convenzioni tra il comune e i teatri, in centro come in periferia (circa 22 le sale coinvolte).

E non si parla solo del Piccolo Teatro, che del teatro pubblico in Italia è stato il primo modello, da quando nacque nel 1947, e che è adeguatamente sovvenzionato (e sponsorizzato, oltre che unico ad essere insignito fin nell’intestazione «d’Europa») da quando con notevole lungimiranza e incontenibile entusiasmo venne fondato da Paolo Grassi, Giorgio Strehler e, non meno di loro, dal sindaco Greppi. Una scelta politica (non solo culturale) che ha dato i suoi frutti. Ma il sistema delle convenzioni, ovvero di finanziamenti garantiti a certe voci del bilancio, è stato in qualche modo generato da un’altra iniziativa ormai «storica» della Provincia, Invito a teatro. E perfino la Cariplo con la sua potenza finanziaria emana ogni anno un bando per le iniziative teatrali cui contribuire. Tutta questa «ricchezza» (rispetto ai meccanismi di altre città) vale per ogni tipo di teatro, compresi quindi quelli di periferia, quelli piccoli, e anche dedicati a sperimentare nuovi linguaggi, quelli di impegno civile e quelli di militanza, che possono così lavorare e promuoversi un pubblico costante. Adempiono anzi alla funzione non secondaria di costituire in zone emarginate la funzione di veri presidi culturali. Se si vuole, è la strada esattamente opposta a quella perseguita dall’altra capitale del teatro italiano, Torino, che ha cercato gradualmente di centralizzare sotto l’ombrello dello stabile tutte le altre rassegne e manifestazioni, dalla danza alla ricerca teatrale.

A Milano non a caso, negli ultimi 25 anni, le giunte di destra hanno provato a più riprese a chiudere quelle convenzioni con il comune, ma poi si son dovute arrendere davanti al successo di pubblico che le ha salvaguardate. Così che in città, oltre al Piccolo che dispone di tre sale (lo Strehler, il Grassi e lo Studio, intitolato ora a Mariangela Melato), esistono (affollati ogni sera) altri due piccoli «colossi» con più sale, nati dall’iniziativa privata: l’Elfo Puccini in corso Buenos Ayres diretto da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, e il Franco Parenti (dal nome del grande attore che lo fondò in via Pierlombardo) diretto da Andrée Ruth Shammah, che oltre agli spazi di spettacolo e al cibo, garantisce ora anche la piscina in via d’apertura. E fuori (e contro) degli spazi ufficiali, Milano è la città di Dario Fo e Franca Rame, che tanto più dall’alto del loro Nobel, hanno sempre giocato su un terreno nazionale e che usciva volentieri e spesso dalle sale teatrali.

Ultimo elemento da ricordare, in questa cornice privilegiata, è l’importanza che a Milano hanno avuto i socialisti, che del resto alla cultura erano notoriamente sensibili, basta ricordare nei ruoli diversi Paolo Grassi e Claudio Martelli. Ma proprio perché consapevole di questi legami atavici con la politica, la macchina teatrale milanese non sembra particolarmente coinvolta ora dagli esiti elettorali del 5 giugno. Rispetto ai due principali candidati, la bilancia resta incerta, anche nell’appeal e nel valore che sono in grado di far pesare. Senza inutili forzature di «gusto», la fierezza del dopo Expò, presentando come Cornelia i suoi due «gioielli», sembra barcamenarsi in una corsa all’omologazione tra i due.

Non sembri una bestemmia, ma è la sensazione che si può provare uscendo da quello che è lo spettacolo centrale della programmazione (ben due mesi) del Piccolo.
Giusto 60 anni fa, nel 1956, anno in cui sarebbe poi deceduto, fu Bertolt Brecht in persona ad assistere alla prima della messinscena della sua Opera da tre soldi con la regia di Strehler. Ora la regia di quel testo celeberrimo è stata affidata a Damiano Michieletto, regista molto apprezzato in tutta Europa, conteso dai festival e dai teatri lirici più importanti. Questa sua Opera riscuote grande successo del pubblico più giovane, ed è sicuramente un bene, ma a rifletterci quel ritmo frenetico dentro un campo delimitato da sbarre, con attori giovani e giovanissimi che corrono via contendendosi vite, amori e valori, somiglia tanto a un videogame, seppure in cinemascope. Sarà un «segno» dei tempi, e anche del fatto che la morte di Luca Ronconi ha cambiato un po’ le cose sull’intera scena italiana. A Milano, sarà curioso vedere, quando sarà il momento, quale «lungimirante» equilibrio di cultura teatrale sapranno trovare questa volta le fondazioni bancarie, la finanza milanese e il sindaco che uscirà da queste elezioni.