Una sentenza che per Mark Zuckeberg è un rospo da ingoiare senza poter protestare. Ieri, infatti, la Corte dell’Unione ha considerato sbagliata e da riscrivere interamente la norma che consente a Facebook, ma per estensione potrebbe riguardare tutte le imprese dei Big Data (Google compresa, dunque), di poter «esportare» nei suoi server i datti raccolti sugli utenti europei del social network. Per la Corte, la privacy è un diritto inalienabile della persona e nessuna impresa può violarlo, anche se c’è un accordo commerciale che consente di elaborare i dati individuali fuori dal territorio europeo.

La sentenza non è contro Facebook, ma contro una norma dell’Unione europea, ma dalla società di Mark Zuckeberg sono arrivate subito alcune dichiarazione dove viene chiesto all’Unione Europea di modificare la norma e che il social network è disponibile a fare la sua parte affinché vengano rispettate le indicazioni emerse ieri dalla Corte.

Tutto ha inizio con l’interpellanza di Maximilian Schrems, un utente austriaco del social network, che chiedeva che i suoi dati non dovevano essere «esportati» al di fuori dei confini dell’Unione europea. Un’operazione divenuta prassi consolidata dopo che era stato siglato un accordo commerciale nel 2000 – il Safe Harbor – che consentiva alle imprese statunitensi di poter utilizzare e spostare i dati personali nei server localizzati negli Stati Uniti. È noto che la norme europee sulla privacy sono molti più sensibili alla difesa e salvaguardia dei dati personali delle leggi statunitensi. C’è però da dire che le direttive europee sono chiare, in materia di privacy, anche se i diversi paesi che fanno parte dell’Unione europea non hanno modificato le legislazioni nazionali secondo lo «spirito europeo». Nella sentenza della Corte è proprio richiamata questa differenza di impostazione con una sottolineatura che non piacerà neppure al Dipartimento di Stato, visto che gli Stati Uniti sono considerato un paese che non difende adeguatamente il diritto alla riservatezza.

Immediata, la reazione di Facebook, che ha annunciato che rispetterà la sentenza e interromperà dunque l’esportazione dei dati, ma chiede la rapida apertura di un tavolo di trattativa per non incorrere in nessuna sanzione e per risolvere una situazione che potenzialmente può causare perdite economiche rilevanti.

L’accusa di violare la privacy è d’altronde un nervo scoperto per Facebook. Il social network di Mark Zuckeberg è stato infatti più volte criticato per la sua disponibilità a collaborare con la «National Security Agency» (Nsa) e con le altre organizzazioni statunitensi preposte alla difesa della sicurezza nazionale. Le stesse organizzazioni che hanno monitorato, cioè «spiato» le comunicazioni di cittadini statunitensi e non solo, come hanno più volte sostenuto e denunciato, ad esempio, Edward Snowden o Julian Assange. Oltre al rischio del controllo poliziesco sulle proprie preferenze, stili di vita, amicizie, conversazioni on-line, Facebbok è stato sotto il mirino di mediattivisti, perché il «modello di business» del social network si basa proprio sull’elaborazione, impacchettamento e vendita dei dati raccolti. Ed è notorio che i dati individuali, almeno negli Stati Uniti, sono di proprietà di Facebook, senza che il singolo possa fare un granché per tutelarsi.

C’è anche un altro risvolto della sentenza della Corte europea, che non ha molto a che fare con la privacy, ma con una carsica guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti. Per quanto riguarda l’hi-tech, tra l’Unione europea e le major della Rete – Apple, Google, Facebook, Amazon – è inoltre in corso un braccio di ferro su molti aspetti, dalle ipotesi di posizione monopolista agli escamotage messi in campo da queste imprese per sfuggire nel pagamento delle tasse. Alle condizioni di lavoro negli stabilimenti europei. Finora è stato un susseguirsi di stop and go, che ha alternato sanzioni economiche a stigmatizzazioni, multe e imposizioni a modificare il software affinché sia garantita la concorrenza.

I rapporti tra Unione europea e imprese made in Usa non sono mai stati semplici. Il precedente più clamoroso è la condanna e la sanzione economica a Microsoft per posizione dominante. e iniziativa analoghe, anche se di minor impatto, sono venute anche contro Google.