Esistono le avventure dell’accadere, ma esistono anche quelle del pensiero: brandelli di esistenza che vibrano e si consumano nel silenzio, dentro di sé, in quel teatro interiore che nulla lascia trapelare all’esterno di ciò che si sta vivendo. Perché il disagio psichico può manifestarsi con crisi eloquenti, allarmanti, ma può anche consumarsi nel silenzio e nell’ombra, soprattutto quando, come spesso oggi accade, la vita non si svolge più nell’ambito di una comunità, ma si consuma in solitudine anche quando non sarebbe difficile avere delle relazioni. Il disagio interiore a volte predilige il silenzio e crea attorno alla persona un’aura invisibile e impalpabile di isolamento dal mondo, di opacità e di distanza. Dai racconti intrecciati e complessi sulla follia de La prima verità, che le ha fatto vincere l’anno scorso il Campiello, Simona Vinci, in quest’ultimo libro, Parla, mia paura, si espone in prima persona, con un linguaggio meno eterogeneo, meno ruvido e più scorrevole, che fa pensare a un flusso di coscienza. Si svolge così, sotto il nostro sguardo di lettori, un lungo monologo, che di ciò che le è accaduto dice solo l’indispensabile, per concentrarsi sulle forme dell’angoscia, sulle sue associazioni (come quella che evoca il film di Ingmar Bergman L’ora del lupo), sui tortuosi pensieri che possono nascere anche nella mente di una donna giovane e bella. Che per fortuna, ma anche per intelligenza, incontra sul suo cammino due figure che potremmo chiamare “genitoriali”, alle quali chiede aiuto per uscire dall’ossessione di annullarsi, prima tramite l’anoressia e poi più esplicitamente attraverso fantasie suicide. La figura maschile a cui si rivolge ha l’aspetto autorevole e paziente di un chirurgo estetico, che gioca sul tempo dell’attesa e della maturazione il suo ruolo di “padre”, che lascia indicare agli avvenimenti nella vita della paziente la “norma” , il confine che una donna non può varcare, pena la distruzione della propria identità. Le intenzioni che hanno portato da lui la scrittrice trentenne assomigliano infatti molto a delle fantasie adolescenziali, in cui una ragazzina fa fatica ad assumere il ruolo di donna e ne rifiuta il suo segnale più evidente: il seno. Nella descrizione dell’ambiente e degli altri pazienti che come lei attendono di essere ricevuti, Simona Vinci ci fa capire come ogni problema estetico, che la chirurgia plastica è in grado di risolvere, abbia la sua “ombra” psichica che è fatta di motivazioni inconsce, che non è meno importante dell’aspetto corporeo, che è alla radice della eventuale metamorfosi fisica. Una giovane donna che desidera farsi amputare il seno può apparire una contraddizione in termini, il parto illogico di una fantasia malata, ma, mettendosi in gioco personalmente, con le sue fobie e i suoi ragionamenti interiori, la scrittrice ci fa capire come anche questa fantasia “malata” sia un elemento della realtà con cui fare i conti, che può essere fonte di sofferenza, ma anche sintomo prezioso con cui è necessario dialogare per liberarsi dall’angoscia. Attraverso l’iter dei suoi pensieri, fatto di oscillazioni e insicurezze, di attenzione e documentazione, la chirurgia plastica viene spogliata dei luoghi comuni che la vedono solo come il capriccio di persone ricche e viene considerata nella sua funzione medica innanzitutto ricostruttiva, capace di riparare i volti e i corpi storpiati dalle guerre o dalle malformazioni naturali. E da questa prospettiva emerge l’importanza del suo ruolo psichico, che consiste nel ridare dignità e coraggio di vivere a chi ha perso o non ha mai avuto un fisico come gli altri.

Entra poi in gioco l’altro elemento della coppia genitoriale: una donna psicanalista che svolge in qualche modo un ruolo “materno”, sebbene quest’aggettivo e questa funzione non vengano dichiarati. E con l’inizio dell’analisi, con la “scelta” della persona adatta, arriva anche la prima immagine simbolica dell’inconscio: quella di una valigia pesante che l’autrice si porta sempre dietro senza sapere cosa contenga, e che finalmente sarà forse il caso di aprire. Con il linguaggio sobrio e “necessario” che la caratterizza, Simona Vinci riempie i mesi e gli anni dell’analisi con dettagli sparsi: della stanza dell’analista, dell’ansia con la quale si precipita prima del tempo alle sedute, delle immagini che sorgono dalla quiete della fiducia o che risaltano nell’arredamento dello studio – un uomo, una bambina, un cane, che a lei indicano la mancanza di una donna per completare il quadro, segno del proprio sentirsi esclusa -, e ci restituisce il senso di protezione e regressione indotto dall’analista, indicata soltanto con un bagliore: “il suo biondo e oro di capelli e sguardo” , fino al grosso ragno che vuol mordere la sua mano in una dimensione sospesa tra il sogno e l’immaginazione. E’ forse questa l’immagine più forte che, assieme ad altre, impersona la paura, e, pur nella semplicità del suo simbolismo, reca l’eco letteraria della blatta kafkiana che apre La Metamorfosi. Ma le immagini della paura sono tante e vengono enumerate e descritte, aggiornate ai più recenti sviluppi delle possibili stragi cittadine avvenute negli ultimi anni. E chi è vittima dell’ansia sa che il rischio di aver paura non si estingue mai definitivamente. Tra tutte le forme della paura, quelle che caratterizzano maggiormente il nostro tempo sono certamente le crisi di panico, che, oltre ad essere clinicamente indimostrabili, sono anche difficili da spiegare agli altri. E forse il punto più suggestivo e coinvolgente del racconto è proprio quello in cui la protagonista, assalita da una crisi su un autobus a New York, senza la minima idea della fermata a cui scendere e di una direzione per tornare a casa, viene capita nel suo mutismo da una passeggera di colore che, solo guardandola negli occhi, afferra al volo la sua situazione di panico e le indica dove scendere e in che direzione andare per tornare a casa. Quest’aiuto inatteso, questa mano tesa nell’anonimato della grande città straniera sono il pathos necessario per invertire la rotta e iniziare timidamente il lungo cammino della guarigione.