Il lascito politico e culturale degli anni Settanta è stato scandagliato soprattutto da chi durante quegli anni aveva fatto la scelta di stare dalla parte dei movimenti sociali. L’elaborazione della sconfitta ha oscillato da una nostalgia per l’annunciata e mai avvenuta trasformazione radicale dei rapporti sociali e l’analisi mai indulgente verso i mutamenti, di segno opposto rispetto a quello immaginato, che sono intervenuti nella realtà italiana. È emersa una storia dei «vinti» che non ha mai saputo «dialogare» con i movimenti che si sono affacciati sulla scena pubblica dopo il mirabile decennio. Ma accanto a questa ancora in divenire elaborazione della sconfitta, si è imposta, invece, una storia dei vincitori, che ha esercitato una indubbia egemonia nell’opinione pubblica. Una delle parole più osteggiate è stata sicuramente «conflitto», ritenuto foriera di legittimazione di pratiche sociali e politiche che mettevano in discussione l’assetto dei poteri economici e politici emersi nei decenni successivi.

Tuttavia, la società italiana tutto è, eccetto un paese pacificato, come d’altronde testimonia il risultato elettorale di appena qualche settimana fa. Dovevano essere le elezioni di stabilizzazione di un sistema sistema politico dominato dall’agenda imposta dal blocco sociale raccolto attorno alla figura carismatica di Silvio Berlusconi e invece hanno restituito un paese che ha respinto proprio quella stabilizzazione auspicata. Sulla natura di questo rifiuto la discussione è aperta, anche se è certo che neppure l’agenda politica berlusconiana incardinata su un neoliberismo in economia e sul populistico legame osmotico tra il popolo e il «capo» non riesce a fare fronte alla più grave crisi economica che il capitalismo globale ha conosciuto dal 1929. Altrettanto evidente è la debaclé della proposta del centrosinistra, mentre l’irruzione nelle istituzioni parlamentari del movimento cinque stelle alimenta un lessico moralistico e legalitario teso a prevenire possibili rivolte sociali.

L’idea di una stabilizzazione del sistema politico è quindi durata giusto il tempo di una campagna elettorale. Vittima eccellente del risultato elettorale è però la visione negativa del «conflitto» consolidata durante l’egemonia culturale neoliberista. Con il conflitto, e con le forme che assume, tutti i partiti politici della seconda repubblica i conti dovranno prima o poi farli. Chi assegna al «conflitto» un ruolo positivo, considerandolo il motore del cambiamento, è Pierfranco Pellizzetti, docente universitario di politiche globali e autore di alcuni volumi critici del berlusconismo (Fenomenologia di Berlusconi, manifestolibri) e del neoliberismo made in Italy (Liberista sarà lei, Codice edizioni). Lo fa in un saggio da poco pubblicato da Codice edizioni dal titolo perentorio appunto di Conflitto (pp. 115, euro 9,90). Il libro, che fa parte della nuova collana «Tempi moderni» della casa editrice torinese, non nasconde le sue ambizioni di fornire una chiave interpretativa dei movimenti sociali di questi ultimi anni all’interno di una cultura democratica radicale che prende congedo dalle eterogenee culture politiche del movimento operaio. Si passa così dall’analisi degli indignados, di Occupy Wall Street e delle primavere arabe per giungere alla realtà italiana.

Per l’autore, i movimenti sociali non possono dunque essere letti con gli occhiali dell’antagonismo di classe. Quello che affermano è la necessità di una redistribuzione della ricchezza e un articolato insieme di regole tese a ridimensionare il potere della finanza e del potere globale delle imprese. Accanto a questo, l’urgenza di innovare la forma stato attraverso un sistema misto di democrazia diretta e di democrazia rappresentativa.
I movimenti sociali sono quindi la forma propedeutica al superamento tanto della democrazia diretta che della democrazia rappresentativa.

Con accenni polemici verso la retorica dell’indignazione cara a tanti opinion maker, emerge così l’aspetto centrale del volume. Pellizzetti, usando la figura del gatekeeper – i guardiani del campo politico, usando la figura cara a Pierre Bourdieu –, insiste sulla necessità di un riequilibrio tra l’Economico e il Politico, ripristinando così la funzione regolatrice dello Stato. In altri termini, il conflitto, così come si è manifestato nei movimenti sociali, ha questo ruolo di stabilizzazione. E di innovazione. Quella cosa che manca, secondo Pellizzetti, nella pratica politica istituzionale.

Ma cosa accade quando il conflitto eccede le regole definite dal sistema politico? Una domanda niente affatto peregrina, perché i conflitti attuali, anche nella loro forma spuria, opaca, eccedono sempre le compatibilità definite istituzionalmente. Da qui la necessità di definire il rapporto tra innovazione e trasformazione radicale dei rapporti sociali. O, se si preferisce, la dialettica tra pratiche politiche riformiste e superamento della società del capitale.