Ero molto giovane quando incontrai i fantasmi. Avevo vent’anni. Studentessa di storia dell’arte a Firenze, per arrotondare la paghetta facevo la comparsa al Teatro Comunale. Mi piaceva molto travestirmi, anche se si trattava solo di un anonimo passaggio tra i coristi. Ronconi una volta mi coinvolse in un’azione scenica vera e propria. Una contadinella trascinata a forza sulle dure assi del palcoscenico da quattro lanzichenecchi assatanati. Mi divincolavo tra le braccia dei soldati, realmente spaventata. Accolsi con orgoglio i complimenti del regista. Il teatro, la finzione, erano nel mio Dna, pensai allora. I miei colleghi del comitato comparse però, tutti di Lotta Continua (come me del resto), erano contrari a questa mia propensione per l’opera, per l’odore di legno delle quinte, per le scene dipinte, per le crinoline dei costumi polverosi. I «compagni», negli anni Settanta, consideravano l’arte «roba da borghesi». Io mi vergognavo di venerarla, l’arte, e mi sentivo indegnamente una borghese. E infatti lo ero.
In una giornata grigia di novembre sbarcarono a Firenze i Romani del cinema. Come un esercito di Barbari, invasero la città e se ne appropriarono. Il film si intitolava Amici miei e il regista era tale Monicelli, un perfetto sconosciuto per noi ragazzi che andavamo al cine solo per vedere storie e attori famosi. Correva l’anno 1975.

Monicelli mi scelse come comparsa semplice. Di volta in volta studentessa, fioraia, passante con valigia lungo i binari della stazione di Santa Maria Novella, mentre Noiret, Tognazzi e Moschin, prendevano a schiaffi ignari viaggiatori affacciati ai finestrini. Mi ricordo che Mario fece allontanare brutalmente alcuni generici addetti a ricevere schiaffi, perché non volevano farsi male e si scostavano all’arrivo del ceffoni. «Cialtroni! Siete pagati bene per farvi male, non per una gita a Firenze!».

Chiara Rapaccini - Fantasmi

Fui colpita dalla violenza spiccia che caratterizzava il set.

Mario mi corteggiò, ci piacemmo, ma l’amore vero venne dopo. I Barbari se ne andarono un giorno di gennaio portandosi dietro il bottino, i sogni della provincia sonnacchiosa e le donne. Io ero tra queste. Fu così che la ragazza ingenua e avida di avventura, lasciò per sempre la provincia per sbarcare nella favolosa Roma, la città del cinema, del peccato, del non ritorno.

Ho vissuto due vite. La prima con Monicelli e compagnia, a Roma, dove andai a vivere nello sdegno e nella riprovazione generale. Erano gente diversa gli artisti del cinema, spudorati, intelligenti e liberi, perlopiù comunisti che si vantavano di esserlo. Discutevano e litigavano sempre, ma poi si riappacificavano. Non parlavano mai di cinema. Allo spettacolo preferivano la cucina o la letteratura. Moravia e la Betti erano sempre incazzati. Trombadori se ne stava silenzioso, Tognazzi invano, desideroso di approvazione sulle sue ricette, cucinava.

Ridevano molto, amavano smodatamente la vita. Ero stordita. La sensazione era di essere stata accolta in un circo molto snob. Un circo, non un circolo. Mastroianni, Tognazzi, Gassman, Age e Scarpelli, Benvenuti e de Bernardi, Suso, Betti, Polanski, Ferreri, Ullmann erano come zii vecchi e giovanissimi, allo stesso tempo. Mentalmente più giovani di me e dei miei amici fiorentini. Forse perché si godevano vita e lavoro e non avevano paura di nulla, tanto meno della morte. Ci ho messo del tempo per abituarmi a quella dolce vita fuori dai canoni, accanto ad un uomo sorprendente, vitale, ironico, ma anche burbero e narciso. Per non perdere la mia identità, l’unica ancora nel mare tempestoso e senza regole dello spettacolo, non ho mai smesso di disegnare, il mio mestiere.

La mia seconda vita è cominciata dopo la morte di Mario e dei suoi compagni di vita e di lavoro. Si volevano tutti molto bene, anche se scherzavano ai funerali degli amici. «Il prossimo mi sa che sei tu. Già che siamo qui, scriviamo il necrologio». E giù a ridere.
Ora se ne sono andati tutti e io non me lo aspettavo. Il primo fu Leo Benvenuti. Zio Leo. Una morìa, una strage, una generazione intera cancellata. Ero troppo giovane e loro troppo vitali per scomparire. Come Susanna tra i vecchioni mi sono ritrovata orfana all’improvviso di molteplici guru.

Fantasmi 2 © Andrea Vierucci

Mario avrebbe 100 anni, oggi, gli altri poco meno. Dopo mesi, anni di smarrimento, di scarsa vena artistica, di sofferenza, ho deciso (ora che ho la loro stessa età, quando li incontrai) di fare i conti con i loro ingombranti ectoplasmi. Fastidiosi e simpatici trolls che danzano ironici intorno a me e non mi abbandonano mai. Ma per fare davvero i conti – conti ingarbugliati – l’unica via d’uscita era servirmi del mio lavoro. Solo attraverso l’arte, l’unica identità «strumentale» che possiedo, mi sarei emancipata da un passato così straordinario.
Mario aveva gettato via decine di foto di scena, di quelle meravigliose in bianco e nero, scattate da maestri come Strizzi, Secchiaroli, Doisneau. Le salvai dal cassonetto della spazzatura una notte di gennaio. «Perché le hai buttate via?» gli chiesi. «Cartaccia, roba vecchia, inutile. Ingombra i cassetti», rispose perentorio, come al solito. Testarda, quasi per fargli dispetto, ho raccolto le sue carte, le ho ordinate e archiviate negli anni, prima e dopo la sua morte. Una morte inaspettata, come la sua vita del resto.

Era arrivato il momento giusto per usare quel materiale straordinario. Ero pronta. E allora, con un’energia che non ricordavo, mi sono buttata. È successo un anno fa. Ho scelto gli scatti più significativi dai set dei film di Mario: Brancaleone alle Crociate, Viaggio con Anita, Casanova 70, Risate di gioia, La grande guerra. Le fotografie erano capolavori in bianco e nero contrastato, quando ancora si usava l’argento in fase di stampa. Poche erano firmate dagli autori. Difficile risalire ai maestri fotografi di scena degli anni ’50 e ’60.

Ho duplicato e stampato le fotografie su vecchi lenzuoli di lino che ho scelto uno ad uno, girovagando tra mercati e antiquari, rovistando nelle soffitte degli amici, al sud e al nord d’Italia. Alcuni hanno ancora la cifra ricamata degli sposi. Con la tempera acrilica ho cancellato il superfluo, i fondi, alcuni personaggi, e ho aggiunto a pennello e a punta secca nuvole, uccelli, omini e donnine, commenti, pensieri in libertà racchiusi nei baloon, in pieno stile RAP. Una bambina vestita di nero col naso a punta e le tette grandi, spunta dalle orecchie di Mastroianni, bisbiglia qualcosa alla Magnani, si affaccia tra i lembi del lenzuolo su cui, splendida, giace Virna Lisi. Quella bambina in lutto schizzata a penna è sempre presente in ogni opera come una spia, un testimone geloso di padri e madri, una voyeur a posteriori delle tresche dei suoi dei. Quella bimba nera sono io, l’edipica orfanella alla ricerca infinita di una collocazione tra i ricordi del passato. Per rifinire il lavoro, ho ricamato gli orli a modo mio, disordinatamente, con fili di seta e cotone coloratissimi. L’ho fatto in compagnia delle mie amiche, come si usava tra le donne di un tempo, che ricamavano la biancheria per la dote delle femmine, chiacchierando di cose d’amore sull’uscio di casa.

Manipolando le fotografie, sfiorando col pennello i bei volti amati, aggiungendo un colore, un segno, incidendo a bulino la tempera secca, sottolineando un profilo a matita, ricamando, me li sono goduti, Mario e gli amici di un tempo, finalmente sola. Forse li ho seppelliti.
Nei venti grandi teli che penderanno tra le colonne di travertino dei principeschi saloni dell’ex Casinò, al Lido – leggeri, dai toni pastello, ondeggianti come lenzuola al vento, come fantasmi vivi e ironici – ritroverete Mario Monicelli (piccolo, adolescente, vecchio), Vittorio, la Magnani, Totò, Marcello, Virna Lisi.

Li conoscete tutti, i grandi protagonisti del cinema italiano, ma stavolta li guarderete con un occhio nuovo, quello di una pittrice. Sguardo limpido, il mio, ironico, appena appannato dalle lacrime. Lo sguardo di una ex ragazzina che li ha tanto amati.