Ogni tanto gli archivi lasciano che prendano nuova energia miti letterari piccoli e grandi, consegnandoli nella forma di libri involontari; e ciò che andava ricostruito per frammenti e congetture, per divinarne un po’ di senso, si rivela di meno instabile consistenza. Così con le riletture e con giochi di pazienza tanti tasselli vanno a posto, e innestano nel presente della nuova lettura l’ipotesi di qualche maturazione futura. Accadde qualche anno fa per le lettere di Montale a Clizia; accade adesso per le lettere di Alberto Moravia a Elsa Morante che, sotto il titolo Quando verrai sarò quasi felice, recano le date 1947-1983, indicanti nella data iniziale quello che, nella coppia, è già un momento critico e nella data finale l’estremo protrarsi di un rapporto che rimase variamente vivo fino alla scomparsa della scrittrice, avvenuta nel 1985 (Bompiani, pp. LVIII-270, € 19,00: la cura precisa e preziosa del volume è, come per altre cose moraviane, di Alessandra Grandelis).
Sono centodieci tra lettere, cartoline, telegrammi, tutti di Moravia: la parte di Elsa è andata quasi completamente smarrita (in appendice, tre lettere di Moravia a Giacomo Debenedetti. Cinquantadue missive di Alberto si leggevano in L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, il volume einaudiano del 2012, dove anche stanno dieci lettere o abbozzi di Elsa). Ma l’accostamento dei due nomi, oltre che la disponibilità dell’intero corpus – nonostante il salto di alcuni anni – rimette in primo piano due figure che ciascuna per proprio conto e tutte e due insieme tanto hanno significato e significano per tutto ciò che dai fatti letterari deriva quando sono incarnati in personaggi di tale rilievo. Il punto di partenza è quello degli anni che ruotano per Moravia tra Agostino e La romana; per la Morante su Menzogna e sortilegio.
Fin dall’esordio, il legame sentimentale risente di quella che la Morante stessa, per sé, definiva pesanteur: Moravia dice «Vorrei veramente poterti dire qualche cosa che ti consolasse, ma mi rendo conto che è impossibile, anche perché, al solito, le ragioni della tua infelicità sono oscure e oscuramente espresse». Se la pesanteur è una condizione esistenziale – per la Morante ben delineata da Garboli nel suo significato letterario –, nel rapporto di coppia prende le forme di una gelosia che Moravia mal sopporta e che anni dopo definirà «qualcosa di aberrante». Soprattutto se si pensa che le ragioni sopra accennate nascono nel momento in cui Elsa è nel pieno di un periodo di problematica attrazione per Luchino Visconti.
La prima lettera impressiona per quanto sembra tolta da un romanzo o da un racconto di Moravia. Si parla della casa di via Sgambati a Roma dove Elsa e Alberto vanno a vivere dopo il matrimonio, «il piccolo superattico di due stanze» ereditato dallo scrittore nel quale Elsa dice presto di non resistere: sarà venduto prima del trasferimento in via dell’Oca, la mitica residenza della Morante nei pressi di piazza del Popolo. Elsa non c’è, Alberto rientra e le scrive: «Faceva molto caldo e appena giunto a Roma ha cominciato a piovere e piove tuttora. Al mio arrivo ho avuto un’impressione di squallore perché la casa era in disordine fredda e disabitata. Vedendo quelle due stanzette quasi mi pareva impossibile di aver passato lì alcuni anni della mia vita. E i mobili hanno l’aria così modesta e logora». Al di là dell’interesse biografico-esistenziale, ci sono talmente tanti elementi tipici dello scrivere di Moravia, sia tematici (la pioggia, lo squallore, i mobili) sia stilistici (il periodare breve, l’articolazione causa/effetto, la tonalità grigia congrua all’oggetto) da lasciare spazio a qualche suggestione sui rapporti tra esperienza diretta e invenzione narrativa nelle sue opere: più di quanto non si possa credere, stante la matrice sempre letteraria della sua pagina.
Un altro momento critico nella storia di Elsa – il consumarsi dell’amore con il pittore americano Bill Morrow – consentirà a Moravia nel 1961 osservazioni sulla Morante pronte a proiettarsi sulla sostanza dell’opera: «D’altra parte tutte le situazioni del mondo presentano aspetti che noi vorremmo sopprimere e non possiamo. Non c’è mai una situazione che si presenti come esattamente la vorremmo. Ma dovresti riflettere che gli aspetti sgradevoli delle situazioni sono anche quelli che ne confermano la originalità e il carattere, cioè la realtà molto diversa dai sogni e dagli ideali. Tu non ami la realtà; eppure è la sola cosa che vale la pena di considerare e di vivere». Moravia, sempre moralista in senso alto – nel dedurre ogni cosa dall’osservazione e dall’esperienza –, incline al confronto, tenterà ancora una volta di illimpidire le turbolenze di Elsa l’anno dopo, da grande semplificatore che conosce la complessità; dice del «profondo scontento» indotto dalla pubblicazione, forse, dell’Isola di Arturo, e aggiunge: «La disgrazia ha voluto che nei nostri rapporti ci fosse uno scompenso sufficiente per attribuire ad essi tutta la colpa di cose che niente hanno a che fare con essi. Ogni artista vive su un continuo alternarsi di distruzione e costruzione di positività e negatività. Ma se la costruzione, la positività sono interrotte per qualche tempo, non restano che la distruzione e la negatività che l’artista è tentato di rovesciare sulla propria vita».
L’amore nacque sotto il segno della gelosia, come scrive Moravia fin dal 1938 (o ’39?) a Debenedetti: «se Elsa viene a Capri si ingelosirà facilmente – Capri è piena di donne e ci si incontra tutto il giorno – né gioverà, come tu mi consigliasti, che io sfugga le compagnie femminili – la gelosia si nutre di sospetti non di realtà – ora è sempre possibile sospettare», visse controverso, finì in amicizia letteraria. Elsa lo sapeva fin dal 1945, se in una lettera a un’amica aveva scritto che «le coppie di letterati sono una peste».