Nella debita bagarre mediatica, ieri hanno cominciato a circolare copie del programma elettorale del partito laburista, che avrebbe dovuto essere presentato la prossima settimana. Un leak avvenuto in sincronica coincidenza con il cosiddetto Clause V meeting, la riunione in cui i vertici approvano il manifesto elettorale, tenutasi nel pomeriggio. Non è chiaro se si sia trattato di un grossolano errore, o una mossa studiata. Ma chi si aspettava un’atmosfera di frantumazione e caos, è rimasto deluso. Jeremy Corbyn è emerso soddisfatto e carico dalla riunione, e ha sottolineato il clima di accordo generale nell’approvare la politica economica più inequivocabilmente socialista da parte del partito laburista da trent’anni a questa parte.

Corbyn aveva già annunciato nei giorni scorsi una serie di iniziative che sembrano aver conquistato l’interesse generale. Intanto quattro sacrosanti giorni di vacanza, in un paese che non smette mai di comprare e vendere, con i negozi aperti nel weekend dagli anni Novanta; un’istruzione finalmente davvero pubblica, le pensioni tenute agganciate al tasso d’inflazione, i parcheggi gratuiti negli ospedali. Ma quelle di ieri sono 43 pagine fitte di tutto quello ritenuto impensabile dall’inane centrismo delle precedenti incarnazioni del partito: non solo fine dell’austerity ma nazionalizzazioni, aumento della spesa pubblica per università (tasse abolite) e l’National Health Service da finanziarsi con la corporation tax.

Un programma che sembra fatto, certo, per terrorizzare la Middle England centrista, ora rapita dalla risolutezza dimostrata dall’autocratica May, ma anche per chiamare alle urne gli studenti e i giovani che non hanno mai – ed erano fino a poco fa convinti non avrebbero mai – votato. Dopo che May ha scommesso sulle elezioni anticipate, il partito è in risalita nei sondaggi. Sono saliti anche i conservatori, certo, il Labour ha incassato una botta dura alle scorse amministrative: ma la scelta di virare a sinistra ha contemporaneamente messo a tacere il mugugno del «sono tutti uguali». L’elettore inglese si troverà davanti a una scelta politica degna di questo nome. Sull’immigrazione la posizione non è ancora netta, ma non c’è traccia di un allineamento al coro del controllo delle frontiere.

Mentre i Tories di May continuano nel rosario della «strong and stable leadership» nell’uscire dall’Ue – già il soundbite più ripetuto (e sfottuto) della storia – senza pubblicare ancora uno straccio di policy, preferendo accanirsi nella character assassination del leader avversario, i laburisti hanno sfornato una raffica di proposte che è quasi surreale sentire descrivere e discutere per radio o televisione. Ora l’ideale sarebbe che si innescasse una Corbyn-mania simile a quella che ha ubriacato il partito nel paese cosiddetto reale, dove la sua immagine è sottoposta ormai da anni a uno scherno d’ordinanza dal quale nemmeno la Bbc è innocente.

È un programma più moderato di quello di Michael Foot degli anni Ottanta – soprannominato carinamente «la nota di suicidio più lunga della storia»: l’unica nazionalizzazione è quella della Royal Mail recentemente svenduta dai Tories di Cameron, mentre per le ferrovie la posizione è quella già di Miliband nel 2015: sarebbero comunque tornate in mano statale una volta scaduta la franchise. Quanto all’energia l’idea è quella di creare un’azienda statale del gas e dell’elettricità che competa nel mercato. Altra mossa riformista per rassicurare i moderati è l’iniziativa pro-Nato di sostenere il programma di sottomarini nucleari Trident e non insidiare per ora il contributo del 2% di Pil in spese militari, che allo stesso tempo placa le unions che difendono guardinghe l’occupazione nell’enorme industria bellica nazionale. Sulla Brexit non c’è ancora chiarezza, manca un impegno netto a non convocare un secondo referendum. Ma è più voluta che subita.