«Usare gli esseri umani, le più nobili tra le creature, come uno strumento di guerra vuol dire mancare di rispetto all’umanità». Recita così la dichiarazione finale di 26 pagine redatta ieri a Kabul al termine di un incontro di circa 3mila clerici riuniti dal governo.

I religiosi hanno condannato la guerra e in particolare gli attentati suicidi, finendo però per restarne vittime. Poco dopo la lettura della dichiarazione, un attentatore suicida si è fatto saltare in aria non lontano dal luogo dell’incontro, nei pressi del Politecnico di Kabul, proprio mentre mullah, mawlawi e studiosi di diritto islamico lasciavano l’assemblea. Quattordici le vittime, tra morti e feriti. È la risposta di chi lucra sulla guerra alle parole di pace dei religiosi.

I Talebani negano responsabilità, ma condannano fermamente l’incontro come una messinscena del governo di unità nazionale, presieduto da Ashraf Ghani, per conto degli americani: «Consideriamo questo processo, attuato in nome degli studiosi islamici, come un processo puramente americano…così da giustificare la loro oppressiva occupazione militare dandole una coloritura religiosa».

Per i Talebani, quei mullah sono venduti, perché preferiscono mettersi al servizio del corrotto governo di Kabul e dei mentori statunitensi piuttosto che «aiutare l’eroica battaglia del popolo per la liberazione». In pratica, «è un teatrino».

Una lettura riduttiva: gli ulema riuniti a Kabul ieri erano per lo più filo-governativi, ma non era scontato che dall’incontro uscisse un comunicato così esplicito, per quanto equivoco, sulla condanna della guerra e delle pratiche adottate dai Talebani. «Noi, studiosi afghani, dichiariamo questa guerra come ingiusta e in contraddizione con la Sharia. È una guerra in cui viene versato solo il sangue dei musulmani, e nient’altro. Per questo, con questa nostra fatwa invochiamo la fine della guerra, il più presto possibile».

E ancora: «Gli attacchi suicidi, le esplosioni, la divisione, l’insurrezione, i diversi tipi di corruzione, furto, sequestri e ogni tipo di violenza sono considerati gravi peccati nell’Islam e sono contrari alle leggi di Allah il misericordioso». Così i religiosi, che sembrano guardare alla guerra dal punto di vista delle vittime, prima che delle ragioni di chi la combatte: «Chiediamo alle parti in causa che annuncino un cessate il fuoco».

È quanto gli afghani chiedono con sempre maggiore insistenza, da Kabul a Kandahar, da Faizabad a Farah. La guerra miete vittime, per lo più civili. Urge un’interruzione del conflitto. L’offerta di pace avanzata dal presidente Ghani a fine febbraio è stata respinta dai Talebani, al loro interno divisi sulla strategia da seguire.

I religiosi riuniti ieri a Kabul li sollecitano ad accettare l’offerta. «Chiediamo che i Talebani diano una risposta positiva all’offerta di pace del governo afghano, così da impedire che altro sangue venga versato». Difficile che ciò avvenga in tempi rapidi. Al di là delle dichiarazioni pubbliche, lo stesso presidente Ghani, a capo di un governo debole e diviso, non è così incline al compromesso: un eventuale accordo con i Talebani allargherebbe ulteriormente lo spettro «politico» del governo. A uscirne indebolita sarebbe la sua presidenza, già fragile.

Per questo, punta a conquistare «il cuore e le menti» degli afghani screditando gli avversari, i Talebani. Prima ha fortemente voluto un incontro di religiosi in Indonesia, durante il quale il jihad afghano è stato condannato. Poi c’è stato l’incontro di ieri a Kabul. In agenda ce n’è uno simile in Arabia saudita.

Per i Talebani sono mosse disperate di un governo illegittimo e privo di potere. Per loro, chi decide è a Washington e la prima questione da affrontare per parlare di pace è il ritiro delle truppe straniere. Altrimenti, gli attacchi continueranno. Anche contro i clerici che invocano la pace.