La pubblicità vive un rapporto importante con la musica: tante sono le melodie che tutti ricordiamo, semplici, immediate, dalle Tabù con il suo motivo jazz e il testimonial a cartoni animati che ti proiettava nella Louisiana a un passo dallo swing, all’aranciata Sanpellegrino che «ogni bevuta è una fortissima risata ha-ha!», cantata da un ignoto bambino con la erre moscia. Il mondo degli spot ha la magia di trasportarci, in neanche un minuto, all’interno di un caleidoscopio di colori, di canzoni e ritmi sfrenati che fanno dimenticare che non è la musica ad essere la protagonista, ma il prodotto. «Compra», «Bevi», «Io sono il tuo padrone» erano gli ordini subliminali nascosti nelle pubblicità in Essi vivono, distopico horror di John Carpenter: non siamo ovviamente arrivati a questo tipo di oscuro futuro, ma è indubbio che se dovessimo scegliere tra le caramelle gommose di marca ignota e «le morbide» Fruit Joy che «tu resistere non puoi», sceglieremmo queste ultime anche perché, si sente nel bellissimo e ipnotico jingle, «devi, devi, devi masticar».

UNO SPAZIO
Agli spot, come forma d’arte, è stato dedicato persino uno spazio nella tv nostrana, amatissimo dal pubblico e tutt’oggi rimpianto dagli aficionados della nostalgia a tutti i costi: il mitico Carosello. Ben vent’anni di trasmissione (quasi) continua, dal febbraio 1957 al gennaio 1977, 7261 episodi, 10 minuti al giorno per brevi cortometraggi pubblicitari che sono riusciti a promuovere a star della cultura pop personaggi come Carmencita e Caballero, testimonial della Lavazza, Angelino (detersivo Supertrim della Agip), l’Omino coi baffi (caffettiera Bialetti) e Calimero, il pulcino tutto nero della MiraLanza. Se tra i registi spiccavano nomi come Sergio Leone, Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, Corrado Farina, Ermanno Olmi, Sergio Leone, Valerio Zurlini, Pupi Avati, Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini, gli spot erano interpretati da altrettante celebrità.
Nella schiera, lunghissima, di star che si alternarono ricordiamo Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, Erminio Macario, Gilberto Govi, Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Giorgio Albertazzi, Alberto Lupo, Dario Fo, Franca Rame, Amedeo Nazzari, Domenico Modugno, Mina, Adriano Celentano, Walter Chiari e Ugo Tognazzi. Tra gli stranieri fecero capolino anche Frank Sinatra, Jerry Lewis, Jayne Mansfield, Orson Welles e Yul Brynner. Era il cinema che irrompeva nella tv popolare sotto forma di spot. Una cosa unica e forse irripetibile.
Molte pubblicità non vivono però solo di motivetti orecchiabili, ma anche di cantanti, famosi e apprezzati, che hanno prestato la loro voce per sponsorizzare un prodotto. È il caso del salame Negroni, un marchio reso celebre, negli anni del citato Carosello, soprattutto grazie a una serie di pubblicità a carattere western: le avventure dello «sceriffo della valle d’argento». Questi brevi siparietti commerciali li si ricorda soprattutto per il ritornello «Le stelle sono tante milioni di milioni, la stella di Negroni vuol dire qualità», composta da Pier Emilio Bassi, un vero tormentone per tutti gli spettatori dell’epoca. Oggi a cantare quella strofa, con la sua voce profonda e inconfondibile, è Federico Zampaglione, leader dei Tiromancino, in uno spot semplice ma che sancisce ancora di più il rapporto pubblicità e musica, tra autorialità e commercialità grazie a un’esibizione canora non peregrina o sottotono, ma anzi molto intensa.
Ovviamente Zampaglione è soltanto l’ultimo di una lunga serie di artisti che tra bibite gassate e insaccati, hanno riempito il frigo e la pancia degli spettatori grazie alla loro voce, alla loro fama e ai fan perché, alla fine, se è vero che siamo quello che mangiamo, siamo anche quello che ascoltiamo.

BOLLICINE
Il 3 marzo 1989 esce Like a Prayer uno dei brani più famosi ma anche più contestati della popstar Madonna. Un successo mondiale di vendite: prima posizione non solo nella Billboard Hot 100 ma anche nelle classifiche di moltissimi paesi, Italia compresa. Una canzone che la rivista Rolling Stone considererà, nel 2004, tra le 500 migliori di tutti i tempi. Like a Prayer vanta, però, anche un altro record: è stato il primo brano di un’artista famosa ad essere utilizzato in uno spot prima della sua uscita effettiva nei negozi di dischi e nelle radio. La Pepsi firmò, infatti, con Madonna un contratto di testimonial da cinque milioni di dollari per uno spot da 30 secondi, diretto da Mary Lambert, la regista del cult horror Cimitero vivente. La pubblicità fu soprannominata «Make a Wish» e mostrava la cantante mentre, seduta su una poltrona con la bibita reclamizzata in mano, rivedeva sorridendo alcuni video di lei bambina. Ben 250 milioni di telespettatori guardarono lo spot, un successo che Pepsi, la cola più amata tra i giovani statunitensi, si portò a casa dopo la felice collaborazione con Whitney Houston. Solo che Madonna era una mina impazzita, una popstar difficilmente controllabile dalle logiche del mercato: fu così che il momento pubblicitario, innocuo e innocente, diede vita a un video che era un’estensione dello spot, totalmente diverso anche nelle intenzioni. Ora non appariva nessuna ragazzina felice in vecchi video, ma soltanto Madonna, testimone di un crimine brutale, che si rifugia in una chiesa. Da qui il delirio: un Gesù nero con tanto di stigmate, condanne contro il razzismo con croci che bruciano, baci interetnici e un’aria di accusa contro la chiesa cattolica. Come prevedibile, i gruppi religiosi si sentirono oltraggiati e partì un boicottaggio contro la Pepsi: da una scelta felice, Like a Prayer era diventato un sonoro autogol. Saltarono non solo altri due spot pianificati con la cantante ma anche ogni collaborazione futura tra la multinazionale e Madonna.

IL VANTAGGIO
A trarne vantaggio fu però Mtv che trasmise il video incriminato e fece un record di ascolti incredibile. Inutile dire che Like a Prayer era un capolavoro, la pubblicità della Pepsi non proprio memorabile, ma il video musicale qualcosa di ancora adesso potente, intelligente e politico. Anche la collaborazione con Michael Jackson non fu per la Pepsi una passeggiata. Stavolta però ci mise soprattutto lo zampino un destino funesto. Il cantante fu la prima star musicale ad apparire come testimonial per la bibita. Gli spot miravano a colpire gli adolescenti: Pepsi per loro doveva essere un’alternativa alla vetusta Coca-Cola, che aveva recentemente usato Bill Cosby nelle sue pubblicità. Secondo il magnate Jay Coleman, che stava organizzando la campagna, Michael Jackson era la persona perfetta per la nuova immagine della bibita, solo che un’operazione del genere, ovviamente, avrebbe avuto un prezzo: si firmò un contratto per 5 milioni di dollari.
Il brano scelto per pubblicizzare la bevanda fu Billie Jean, imposta dal cantante al posto del jingle conosciuto del marchio, ma non fu l’unico capriccio della popstar: il volto di Jackson non doveva vedersi per più di 4 secondi, una cosa che fece tremare la compagnia dopo i diversi milioni sborsati. Il primo spot del 1983 fu però un successo tale che il fatturato della Pepsi aumentò di diversi miliardi di dollari. Nel gennaio 1984, seguì una seconda pubblicità e questa volta Jackson sarebbe apparso su un palco insieme al resto dei suoi fratelli davanti a 3mila fan. Inizialmente tutto andò secondo i piani, ma, durante l’esibizione, alcune scintille caddero sui capelli del cantante, unti di gel, che presero fuoco. Jackson però continuò stoicamente a ballare per qualche secondo, fino a quando gli assistenti non si accalcarono intorno a lui, cercando disperatamente di spegnere le fiamme ormai alte.
La Pepsi pagò un risarcimento di 1,5 milioni di dollari che il cantante donò in beneficenza a un centro medico californiano. Secondo diverse testimonianze, tra cui quella della truccatrice del cantante, Karen Faye, l’incidente ebbe diverse ripercussioni croniche, tra cui devastanti emicranie che fecero diventare Michael Jackson dipendente dagli antidolorifici. Inoltre parte dei suoi capelli non crebbero più: tutte le operazioni chirurgiche lo portarono a sviluppare un’ossessione anche in questo senso.
Molti sono stati gli artisti musicali che hanno indossato la maglia di Pepsi: in un solo spot l’azienda è riuscita a radunare, nello scenario del Colosseo, Enrique Iglesias, Britney Spears, Pink e Beyoncé sulle note di We Will Rock You dei Queen. Negli anni l’impegno del brand di legarsi al mondo della musica e agli artisti del momento è stato costante, come lo è stato anche il motto «Abbracciare il proprio passato ma vivere per il presente», citato in un video musicale di Beyoncé per promuovere Pepsi Max. Non solo: nel 1997 l’azienda soffiò alla Coca-Cola le artiste più quotate del momento, le Spice Girls, con la loro canzone Move Over, sottotitolata per l’occasione Generationext come motivo simbolo della politica generazionale dell’azienda. In quell’occasione furono commercializzate in edizione limitata delle lattine speciali di Pepsi, ognuna dedicata a un singolo membro del gruppo. Inutile dire che oggi sono oggetto da collezione.
La rossa Coca-Cola invece, forte delle scelte felici del passato, dall’iconico spot anni Trenta con Babbo Natale alla canzone natalizia «Vorrei cantare insieme a voi» degli anni Ottanta, scelse una politica meno aggressiva della concorrenza. Non senza autogol. Per una questione di cachet troppo alto, per esempio, l’azienda fece a meno dei Beatles, a un passo dalla firma di un contratto che avrebbe costretto il quartetto di Liverpool a cantare jingle pubblicitari, ma sicuramente accresciuto le vendite del prodotto. Negli anni non sono mancati certo divi come testimonial, da Ray Charles negli anni Sessanta (che li tradirà con Pepsi negli anni Novanta) a Marilyn Monroe e la sua magnifica silhouette, ma quello che manca a Coca-Cola, nell’usare i cantanti o gli artisti, è proprio la grinta che invece Pepsi ha, anche negli errori e nelle tragedie. Certo è che una delle sue campagne più azzeccate è quella per i cento anni dell’azienda: ispirata a una citazione di Andy Warhol, «Bacia la felicità», il concept è che ogni persona, senza nessuna distinzione, può «baciare» la bottiglia Coca-Cola semplicemente bevendo da questa. In questo si azzera il divario tra fan e star, tutti uniti dall’amore per Coca-Cola. Poveri e ricchi, fortunati o sfigati, solo grazie a un bacio dissetante.

SEMPRE PRESENTI
Ci sono molti cantanti che non sono fidelizzati a un solo brand, ma spaziano di marchio in marchio, fedeli solo a chi offre di più. Shakira, la statuaria cantante colombiana, è uno degli esempi più eclatanti: un’icona planetaria, nota per le sue hit, che ha rappresentato diversi prodotti, a cominciare da Pepsi che l’ha lanciata a più riprese con lo slogan «Ask for more». Sono seguite poi Activia con «Feeling good starts from inside», persino Costa Crociere con «Benvenuti a Felicità», senza contare Oral-B e la Seat. Oggi Shakira promuove, come tante star, soprattutto la sua linea di profumi.
Oltre a lei le celebrità della musica più richieste in stile spot multitasking sono: Rihanna, che in una versione sportiva e a tratti un po’ «aggressiva», ha posato per l’azienda di sportswear Puma, per poi essere la testimonial prima di Gucci, poi di Dior. Ha prestato il volto per la pubblicità della bevanda a base di cocco Vida Vita, per poi posare per Nivea. Come la collega Shakira è concentrata negli ultimi tempi a sponsorizzare soprattutto il suo profumo Rogue.
Justin Bieber è un divo con pochi contratti ma molto richiesto. Per non ripetere alcuni mezzi passi falsi del passato, quando, giovanissimo, è stato testimonial delle creme contro l’acne giovanile targate Proactiv Solution, ora sceglie meglio i marchi da sponsorizzare. Lo ritroviamo per numerose campagne di Calvin Klein, come volto per il colosso di telefonia T-mobile e per Spotify che l’ha ribattezzato per l’occasione «Latin King».
The Weeknd, la star canadese, a livello di advertising, ha fatto parlare di sé quando ha rescisso il contratto milionario che lo legava a H&M. Il cantante non ha gradito, come molti, l’immagine pubblicitaria che raffigurava un bambino nero con indosso una t-shirt che recitava «La scimmia più ’cool’ della giungla». Fortunatamente, meno burrascosi i rapporti con gli altri top brand che lo hanno messo sotto contratto: Bacardi (per la sua vodka Grey Goose), Puma, Apple Music e Hugo Boss.

NELLA PENISOLA
Molte volte capita che in Italia le scelte per i prodotti da sponsorizzare siano di dubbia fama. Ne sa qualcosa Fiordaliso che è passata da essere testimonial per Kilocal, un marchio di prodotti dimagranti, a un mobilificio emiliano. Proprio lo spot di quest’ultima azienda, ispirato malamente al capolavoro di Kubrick, Shining, è stato oggetto di forti critiche, ritirato dalle tv locali e tacciato di essere «violento e lesivo della dignità delle donne». Meglio per Malika Ayane che, per Oral-B, davanti allo specchio, si è lanciata a cantare l’inedita Wow (Niente aspetta) in doppia versione, in accappatoio e con abiti da scena. Big Babol, invece, ha azzeccato uno spot con Fabio Rovazzi che ha scelto questa dimensione commerciale, di pochi secondi, per lanciare la sua hit, Solo se ci sei te. Una pubblicità divertente che fa tornare in mente le vecchie ma mai dimenticate performance di Daniela Goggi e Bud Spencer, intenti a ballare e masticare la gomma meno americana che ci sia, ma che per assurdo ci fa ricordare sempre gli States.
Anche una delle nostre più talentuose cantanti giovani, Annalisa Scarrone, ha ceduto più volte al fascino della pubblicità concedendo il suo viso e le sue canzoni a diversi marchi come nel caso di Trussardi e il suo profumo Sound of Donna o il reggiseno Barcelona per Tezenis. In entrambi i casi sentiamo come colonna sonora due sue hit: Il mondo prima di te e Bye Bye.
Prima di essere scelto Zampaglione come testimonial per il salame Negroni, l’azienda si è sempre distinta per coinvolgere ogni anno un artista diverso: nel 2015 Enrico Ruggeri, nel 2016 Mario Biondi, nel 2018 Noemi. Solo che molti fan si sono lanciati in pesanti critiche, vedendo, in questa scelta commerciale, un tradimento della carriera artistica, pura e senza padroni, dei loro beniamini. Ruggeri ha dovuto scrivere persino un post su Facebook a sua difesa dichiarando: «Ho prestato la voce a uno spot pubblicitario, cantando uno slogan ’storico’ appartenente alla mia infanzia e a quella di tutti i miei coetanei. Quasi tutti quelli che mi hanno scritto si sono dimostrati divertiti. C’è stata una piccolissima percentuale di duri e puri che invece ha manifestato dissenso, quasi che la cosa fosse ’dequalificante’ per un musicista che si proclama serio. Ci sono stati artisti che si sono prestati a cose ben più gravi, prostitutorie direi, presso i potenti di turno: quello è venir meno a dignità ed etica».
Non solo, il cantautore milanese ha ricordato i tempi del mecenatismo, quando poeti, pittori e musicisti dei secoli passati hanno creato opere d’arte per i nobili presso cui alloggiavano, dipingendo sui muri delle loro abitazioni o componendo versi e musiche per le loro mogli in cambio di beni e ospitalità. Per Ruggeri il denaro «è indipendenza creativa: non serve a comprare macchine lussuose, barche o cocaina», ma consente di poter scegliere come realizzare i proprio dischi e come scrivere libri e articoli, quali trasmissioni condurre e così via, lavorando così più per scelta che per bisogno. «Per ottenere e difendere la mia onestà intellettuale posso anche prestare la mia voce. Senza vendere la mia anima», ha concluso.
Se lo spot e i suoi jingle sono visti dai fan come Satana, il record più triste al servizio della pubblicità spetta al grandissimo Franco Cerri, nel fiore della sua carriera artistica, immerso fino al collo in una vasca d’acqua, intento a lavarsi via di dosso macchie ostinate con un etto di Bio Presto. L’essere ricordato più per il ruolo di «uomo in ammollo» che come uno dei più grandi jazzisti nostrani poteva essere il pegno da pagare in visibilità. In questo caso il suo talento e la sua bravura hanno prevalso.
Sarebbe imperdonabile non citare Mina: una tra le interpreti più amate della storia della musica italiana che ha ceduto più volte al fascino della pubblicità. Tutto è iniziato ai tempi del celeberrimo Carosello con spot diventati leggenda come quello della Pasta Barilla, ma soprattutto quello della Cedrata Tassoni, «È buona e fa bene», per il quale la «Tigre di Cremona» presterà la voce per ben trent’anni. Ultimamente Mina è riapparsa nel mondo dei jingle per Tim prima con una versione di All Night di Parov Stelar e ora con la sua iconica Brava. D’altronde il mondo della pubblicità ha corteggiato da sempre quello della musica, creando spesso risultati apprezzati e di successo. Non mancano come abbiamo visto degli enormi buchi nell’acqua che hanno rischiato di fare odiare personaggi apprezzati, o quantomeno di trasformarli in fenomeni da baraccone pronti a vendere l’anima per qualche soldo, ma questa, come direbbe «è un’altra storia».