La disco music resta tra i fenomeni meno studiati e più vilipesi tra le sonorità novecentesche: guardata con diffidenza e sospetto dalle élite culturali, e, ancor oggi, relegata in analisi sociologiche marginali o generalizzanti, è persino assente dalla dialettica istituita via via con i mondi dell’arte, dello spettacolo, della comunicazione. Sul terreno della storia della musica, la disco risulta purtroppo isolata o rimossa dalla saggistica sulla cultura moderna (e postmoderna) e su quella black (o neroamericana), dunque inserita quasi esclusivamente all’interno delle cronache e del gossip su prodotti commerciali e fenomeni consumistici, in rapporto a paragoni più o meno sensati con la pop music (intesa a sua volta quale gergo canzonettistico). Eppure la disco potrebbe essere riconsiderata attraverso un parallelismo storico con il maggior contributo musicale degli afroamericani tra fine Ottocento e oggigiorno: il jazz. Pur con i necessari distinguo, jazz e disco music interpretano, talora somatizzano analoghe istanze in senso antropologico: innanzitutto la loro genesi è priva di certezza e di ufficialità e in parte rimane avvolta nel mistero. Da un lato, infatti, per il jazz è lacunosa o inesistente la documentazione di quanto avviene a New Orleans, grosso modo dal 1890 (quando testimonianze oculari narrano di brass band in strada o di pianisti nei bordelli) fino al 1917, anno in cui è inciso il primo disco (per la cronaca Livery Stable Blues dell’Original Dixieland Jass Band), a immortalare un suono insito nell’atto performativo sia in presenza di pubblico sia in sala d’incisione. Del resto l’idea del supporto fonografico non solo quale «oggetto del desiderio» ma soprattutto come referente testuale assoluto – nella classica resta invece la partitura scritta – si trasferirà anche nel rock e ovviamente nella disco music. Tornando alla genesi, dall’altro lato, anche per la disco non vi è una data esatta, bensì diverse occasioni variamente segnalate: sul piano di stretta rilevanza musicale si indica quale antesignano il singolo One Night Affair (1969) degli O’Jays, grazie al perfetto congegno di basso, batteria, fiati, archi e voci in chiave ritmica, benché la prima storica visione di disco music appartenga a Soul Makossa (1972) del saxman camerunense Manu Dibango, il cui 45 giri viene scoperto per caso dal dj David Mancuso in un negozio di Brooklyn; in quei primissimi Seventies sono comunque in molti – partendo dai fricchettoni Ice o dalla Lafayette Afro Rock Band, per non dire dei cubano-iberici Barrabas di Wild Party (1972), altro singolo ritrovato da Mancuso in un mercatino di Amsterdam – a sperimentare un genere mediaticamente ufficializzato nel 1975 con Never Say Goodbye di Gloria Gaynor.
Come l’inizio così la fine sia del jazz e sia della disco viaggiano tra dubbi, ostilità, pronostici, incertezze. Già nel passato si parla di morte del jazz ogni volta che all’orizzonte appare un nuovo stile progressivo: dopo il periodo hot, tocca allo swing, poi al bebop, al free, alla fusion ricevere insulti, condanne, epiteti, umiliazioni, per mancato rispetto di regole fissate non si sa da chi. Alla disco va addirittura peggio, giacché il 12 luglio 1979 una parte dei detrattori vuole proprio la simbolica condanna alla pena capitale: si tratta della vergognosa Disco Demolition Night, tenutasi allo stadio dei White Sox al Comiskey Park di Chicago, dove, nell’intervallo della partita di baseball, alcuni fanatici bruciano centinaia di vinili quale gesto «liberatorio». D’altronde gli States non sono nuovi a queste «imprese», se si pensa che 15 anni prima, l’estrema destra nelle città del Deep South organizza nelle piazze alcuni falò di lugubre memoria nazista con i dischi dei Beatles, rei di essersi proclamati famosi quanto Gesù Cristo. Per contro, anche nel jazz si verifica, negli anni della Seconda guerra mondiale, una sorta di estinzione di massa, sia pur con altre motivazioni: per legge vengono distrutte tutte le matrici dei V disc – 78 giri destinati all’esercito – per timore che se ne faccia un uso illecito; peccato che tali azioni provochino, in seguito, un faticoso lavoro dei musicologi costretti a recuperare da privati e robivecchi i dischi rovinati (talvolta irreparabilmente) del succolento catalogo di musica swing, mainstream, dixieland. Morale della favola: la morte del jazz e della disco è solo apparente o sbandierata da assurdi pregiudizi; il primo magari non si chiama più swing, bop, free ma è ormai diffuso in ogni angolo del pianeta, la seconda ribattezzata via via dance, techno-pop, acid-jazz, house, nu-disco, edm, continua a imperversare negli specifici ritrovi.

ALLE RADICI
Pensando ancora alle radici, jazz e disco condividono «nobili» origini in seno alle culture afroamericane estese a una complessa multietnicità (emarginata dal razzismo), vieppiù in epoche diverse: come si sa, dalle strutture del folklore nero (spiritual, blues, work song) e di una musica urbana (ragtime) il jazz edifica il proprio linguaggio espressivo, così come la musica popolare della black community postbellica (jump, r’n’b, soul) assieme ad alcune sonorità caraibiche e subsahariane è alla base dello sviluppo della disco, che vede molti protagonisti transitanti dall’uno all’altro microcosmo. Ad esempio, negli anni Venti, Bessie Smith è al top quale cantante blues, ma incide i propri successi assieme a vere jazz band (Saint Louis Blues con Louis Armstrong); negli anni Settanta una raffinata jazz-blues singer come Esther Phillips si rilancia alla grande con la versione disco di What a Difference a Day Makes già interpretato in versione acustica un ventennio prima dalla grande Dinah Washington. Nello stesso periodo, a cavallo fra i tre decenni, la formazione hard bop dei Jazz Crusaders di Joe Sample nel 1971 riduce il nome in The Crusaders chiedendo allo studioso Leonard Feather la cancellazione dalla Jazz Encyclopedia onde evitare confusione tra il «vecchio» e il nuovo corso soul-disco-funky. Invece, senza troppi proclami, James Brown, fin da subito acclamato «re del soul» (ma anch’egli agli esordi con puntatine jazz) evolve costantemente verso un’accentuazione funk e poi disco-funk nelle prestazioni dal vivo e su disco, vantandosi giustamente di essere l’inventore dei passi di danza utilizzati poi da Michael Jackson: ma per entrambi alcuni film etnografici su antichi balli africani svelano, più o meno inconsciamente, la comune matrice originaria.
Oltre alle radici, dunque, negli Stati Uniti, esiste, tanto nel jazz quanto nella disco, persino un esplicito richiamo alla cultura afro, protesa a esaltare il mito della Madre Africa; nel jazz è palese quasi un secolo fa, dal carnevale neworlinese con The King of Zulu alle sofisticate composizioni di Duke Ellington, il cui stile jungle viene anche reso esplicito nelle scenografie e nelle coreografie dei locali ad Harlem (Cotton Club in primis) in cui suona la sua big band. Ancor più «politici», grazie al continente africano in via di decolonizzazione, sono i riferimenti «etnici» nel free jazz, poco prima che, dalle zone sub sahariane, partano le esperienze di musicisti come Fela Kuti in Nigeria, Hugh Masekela in Sudafrica e gli Osibisa tra Ghana, Londra e Caraibi – oltre il citato Dibango – che influenzeranno la stessa disco al pari delle radici statunitense e centro-sud americane.

RITUALI MODERNI
All’Africa ancestrale si collegano pure i rituali moderni sia del jazz sia della disco che risultano antropologici riti di passaggio e di iniziazione soprattutto nel caso del «debutto» dei giovani alle feste o agli eventi in cui si balla, si ascolta, si fa musica. Il ritualismo concerne, in ambo i casi, la musica intesa come unicum, in cui la danza si mescola ai gesti, ai suoni, alle parole, alle bevute (equivalente metaforico delle antiche pozioni magiche), della socialità di gruppo, di etnia, di fede, di generazione. Il rito genera la trance (e viceversa) nelle cosiddette culture primitive, ma nel mondo attuale il collegamento al jazz e alla disco riguarda piuttosto l’assunzione di afrodisiaci per condividere, orgiasticamente, esperienze multisensoriali di conoscenze definibili psichedeliche al di qua e al di là di una psichedelia storica: rito e trance, dal jazz alla disco, connotano, in misure variegate, l’ebbrezza, la gioia, il divertimento e l’estasi collettive, iniziate, nel corso del tempo, da stregoni e sciamani e portate all’estremo nei rave party degli ultimi decenni.
Il rito laico del jazz e della disco – rispettivamente nei decenni ’20-’40 e ’50-’70 – celebra quindi il ballo quale principale esternazione sia dell’essere hic et nunc sia della joie de vivre (e, in forma velata, del j’accuse contro diverse istanze oppressive) nel luogo simbolico dove, appunto, a coppia o in gruppo, ci si scatena in piroette, salti, mossettine talvolta equivoche, pose altrettanto lascive o passi decisamente acrobatici: e la ballroom da un lato, la discothèque dall’altro (notare il francesismo, memore forse della Nouvelle Orléans, per abbreviare l’espressione disco music) diventano «templi» notturni dove si incontrano addirittura i «sacerdoti» delle avanguardie (pittori, registi, poeti, romanzieri) giunti per sentire, vedere, prendere spunto per elaborati mixed-media. In fondo gli scrittori Francis Scott Fitzgerald e la moglie Zelda che ballano il charleston ai party degli anni ruggenti non sono poi antropologicamente distanti da Andy Warhol e relativa Factory presenze fisse del newyorchese Studio 54. Lo stesso dicasi di Jackson Pollock quando vernicia a terra le tele sullo swing di Gene Krupa e di Keith Haring a pennellare di «geroglifici» il corpo nudo di Grace Jones, interazioni o sinestesie: informale/jazz, graffiti/disco.

LA CENSURA
Tuttavia, nonostante gli entusiasmi di artisti sperimentali e intellettuali alternativi come pure il successo presso audience trasversali, agli inizi, sia sul jazz sia sulla disco, si abbatte la scure della censura, del moralismo, del disprezzo che la borghesia americana nutre verso le minoranze locali, giudicando il primo cacofonia selvaggia, ovvero «roba da negri», da creoli, da immigrati europei, la seconda un vizio perverso ancora dei «nigger», ma anche di gay e latino: e in risposta al perbenismo di una cultura teologicamente puritana (da costa a costa soprattutto protestante calvinista) entrambe le musiche diventano, in alcuni snodi epocali, un messaggio creativo di fierezza identitaria, alla quale, oltre alla pelle e al sesso, è legata anche una lotta di classe di proletari e sottoproletari in forme difficilmente comprensibili nell’ottica europeista.
Quest’ultima ipotesi è verificabile, sincronicamente, al di là dei confronti storici, nel decennio cruciale – i Seventies – quando trionfa la disco, mentre il coevo jazz vive radicali metamorfosi. Forse è ancora lui, Miles Davis, il protagonista indiretto della deriva funk, crossover, elettrica, ballabile, discotecara appunto (benché il termine sia in Italia adoperato spregiativamente) di molti jazzmen: non tanto con Bitches Brew (1970) che resta un lp difficile, fatto proprio dagli hippie ormai avvezzi agli sperimentalismi musicali, quanto in un album come On the Corner (1972) pensato alla stregua di una raccolta di brani da classifica, facente scuola, vent’anni dopo, su techno, drum’n’bass, nu jazz; gli onori della hit parade toccheranno invece al «discepolo» Herbie Hancock entrando nelle simpatie dei disc jockey con il brano Rock-it da Future Shock (1983). Per la cronaca, i rapporti tra Miles e la dance music si intensificheranno per tutti gli anni Ottanta, dalla cover di Human Nature di Michael Jackson alle collaborazioni con Chaka Khan e Prince (la prima anche jazz singer, il secondo autore di due album fusion) fino al postumo Doo-Bop (1991) con il rapper Easy-Mo Bee.
Gelosi del successo di band disco-funk come Earth Wind & Fire (il cui leader Maurice White proviene dal jazz) molti hard bopper non solo si circondano di strumenti elettrificati, ma si convertono a una fusion sempre più ballabile passando a un disco-funky spesso raffinato o vivacissimo. In tal senso esistono, anzitutto, tre significativi casi isolati: il primo è Quincy Jones, giovane trombettista e arrangiatore della Count Basie Orchestra, arrivato, dopo qualche album solista di jazzrock, a produrre i maggiori album di Michael Jackson (Off the Wall, Thriller, Bad), a dirigere l’orchestrona che riporta Davis ai «classici» della collaborazione con Gil Evans (cd e dvd Miles & Quincy Live in Montreux) e, in mezzo, a inventarsi l’originalissimo Back on the Block (1987) dove, assieme a tanti ospiti famosi, celebra sé stesso e la storia musicale afroamericana, tra bebop e funk, disco e hip hop. Il secondo riguarda un altro trombettista, Donald Byrd, che, nella storia del jazz, sta alla disco come Miles al rock: cresciuto nel miglior hard bop di scuola Blue Note, nel 1973, trova la label, già convertitasi alla fusion, che gli produce Black Byrd, ben presto il 33 giri più venduto dell’etichetta medesima: il titolo ispirerà il nome del settetto The Blackbyrds di Keith Killgo, dalla formazione cangiante, in cui si inserirà lo stesso Donald per cinque vinili strepitosi nel triennio ’74-’76, da Flying Star a City Life fino allo strepitoso Action con i riff di chitarra di Ray Parker Jr.

ECCO I BEATLES
Il terzo caso è George Benson, che, dopo i giovanili trascorsi «alla maniera di» Charlie Christian e Barney Kessel, scopre i Beatles (notevole il suo Abbey Road in chiave funk fusion) per dedicarsi a un solismo dall’imprinting danzereccio, dove il canto scat è coordinato ai virtuosismi chitarristici, su dolci cadenze ritmate: rivelatosi internazionalmente con il film musicale All that Jazz in un finale con il brano On Broadway ripreso anche in tanti dischi live, oggi alterna dal vivo passato e presente, con puntuali «ritorni all’ordine» come sul notevole cd Big Boss Band (1990) assieme alla nuova Count Basie Orchestra. Del resto una soft music che guarda alla disco, nel jazz, è addirittura favorita dal lancio di una combattiva etichetta, la Cti Records di Creed Taylor, già fondatore della Impulse! e consulente per la Verve: mediante la Serie 3000 dal 1967 Creed lancia una sorta di pop-jazz con A Day in the Life di Wes Montgomery e altri lavori di Jobim, Herbie Mann o lo stesso Quincy Jones; con la successiva Serie 6000 Taylor convince diversi esponenti del jazz duro (Joe Farrell, Bob James, Hubert Laws) e della bossanova (Deodato, Airto Morerira) a suonare più funky, fino ad avvicinarli al soul e allo smooth. Ma è con la serie Kudu dei vari Hank Crawford, Idris Muhammad, Grover Washington, Johnny Hammond che decolla quasi una fisiognomica disco-jazz, ottenendo da un lato vendite strepitose, dall’altro solenni stroncature da parte dei puristi già storcenti il naso, in quegli anni, sia per il rock-jazz dei davisiani Weather Report, Lifetime, Return to Forever, Headhunders, Mahavisnhu Orchestra, sia per la svolta ultraradicale del free con creative music chicagoana e con improvised europea.
All’inverso molti divi della disco, sin da giovani, vivono e crescono nelle comunità afroamericane dalle consolidate «tradizioni»: vocalist con esperienze nel gospel, nel blues, nel soul, strumentisti nel jazz e nel r’n’b. Qualcuno inizia la carriera con questi generi, altri, lanciati subito o quasi come disco star, non dimenticano né rinnegano la propria cultura inserendo qua e là riferimenti soprattutto allo swing e alla fusion in molti brani: pezzi jazzati si trovano spulciando ad esempio tra i vinili di Brass Construction, MFSB, Players Association, Fatback Band, Chic, Cloud One, Leon Ware, Gloria Scott, John Davis. E in tal senso per alcuni insigni studiosi, come il tedesco Joachim-Ernst Berendt inserire nella discografia finale del suo Libro del jazz (il più venduto in tutto il mondo) l’album Shaft (1971) di Isaac Hayes vuol dire collegare i due mondi, far intuire già nel 1974, con un quarto di secolo d’anticipo che figure del calibro di Hayes, di Dibango, degli EWF saranno presenze assidue in molti jazz festival, finalmente riconsiderate nell’intera esperienza sonora afroamericana.

FUORI I DISCHI

Sedici album «disco music» registrati da altrettanti noti jazzmen nel periodo d’oro (1973-1981)
Betty Davis Betty Davis (1973)
Roy Ayers & Wayne Henderson Step in to Our Life (1978)
Joe Bataan Afrofilipino (1975)
Dee Dee Bridgewater Bad for Me (1979)
Roberta Flack Roberta Flack Featuring Donny Hathaway (1979)
Astrud Gilberto That Girl from Ipanema (1977)
Herbie Hancock Monster (1980)
Michel Legrand Disco Magic Concorde (1978)
Herbie Mann Bird in a Silver (1975)
Manhattan Trasfer Coming Out (1976)
Alphonse Mouzon Baby Come Back (1979)
Asha Putli The Devil Is Loose (1976)
Mongo Santamaria Red Hot (1979)
Shakatak Drivin’ Hard (1981)
Gabor Szabo Mizrab (1973)
Ubiquity Starbooty (1978)