Mi sono avvicinato con curiosità ed interesse a questo libretto di Claudia Mancina (Berlinguer in questione, Laterza, pp. 140, euro 12) per due motivi. Innanzitutto perché, tenuto conto dell’iter politico dell’autrice, la sua dichiara avversione politica per Berlinguer mi pareva intellettualmente più onesta della mistificazione agiografica di coloro che, lontanissimi, anzi opposti, rispetto alla cultura ed alle prospettive berlingueriane, commemorano oggi l’immagine consolatoria della loro perduta giovinezza. Di coloro che, tramite la costruzione di una sacra icona, tentano di dare onorabilità ad una delle storie più comuni e consunte della vita politica: rivoluzionari da giovani, cinici conservatori, soprattutto di loro stessi, da vecchi.
In secondo luogo perché l’autrice è studiosa di filosofia e quindi restavo convinto che la sua critica fosse argomentata, a più di un ventennio dalla fine del Pci, sulla base di una tessitura analitica non banale.
Invece mi sono ritrovato di fronte allo stesso libro che una giornalista, Miriam Mafai, scrisse nel 1996: Dimenticare Berlinguer. A parte qualche differenza interpretativa su aspetti contingenti, le tesi di fondo sono le stesse: Berlinguer antimoderno come Pasolini; Berlinguer comunista identitario culturalmente irriformabile. L’antimodernità «antropologica» si riflette sulla sua concezione della democrazia e della funzionalità delle istituzioni. Craxi aveva posto il vero problema della modernizzazione istituzionale. Certo la commistione tra affari e politica finì per impedire la «grande riforma», tuttavia egli era il vero interprete, a sinistra, della modernità.
Tutte cose che la giornalista Mafai argomenta alla metà degli anni Novanta quando ormai Berlinguer, come sottolinea molte volte, è «sempre più lontano», sostanzialmente «dimenticato» dal Pds. Un Pds bipolarista, a favore del superamento dell’assemblearismo costituzionale e del tutto estraneo a qualsiasi declinazione delle teorie critiche del capitalismo (ancora Mafai). Non c’era alcun bisogno di aspettare Renzi per avere la rivelazione del riformismo rovesciato.
Tesi della Mafai ed ora della Mancina che chi scrive questa nota non condivide; ma non è questo il punto. Il punto è che quasi vent’anni dopo tali tesi vengono riproposte in assenza di riflessione sulle categorie analitiche usate e senza tener conto degli esiti storico-politici cui siamo giunti nel momento attuale.
È vero che l’autrice dice esplicitamente di non aver voluto fare un «saggio storico», bensì una «riflessione senza rete»; ma una riflessione di 112 pagine in assenza di «storia» e di «filosofia» non è altro che un polemico articolo di giornale ripetitivo e artificiosamente dilatato.
Berlinguer e la modernità; Berlinguer e l’identità comunista; Berlinguer e la democrazia; Berlinguer e il marxismo: sono le scansioni principali cui Mancina sottopone le inadeguatezze di quello che considera l’ultimo «vero» segretario del Pci.
«Modernità», «identità comunista» (od anche socialdemocratica), «democrazia», «marxismo» sono insiemi concettuali e realtà storiche assai complesse e soprattutto, proprio in quanto storiche, in continua trasformazione. Nelle pagine della Mancina, invece, assumono la funzione rigida di pietre di paragone su cui misurare adeguatezza o inadeguatezza tanto della elaborazione culturale che della pratica politica di Enrico Berlinguer. Non categorie analitiche problematiche da maneggiare con cura e cautela, bensì compiute griglie fattuali, veri letti di Procuste.
Su tale letto, ad esempio (se ne potrebbero fare tantissimi), Mancina misura uno dei molti aspetti nefasti di un’eredità che nonostante tutto, ancora «condiziona» la sinistra italiana. Il condizionamento è il frutto della «incapacità di fare i conti con l’ombra di Berlinguer». (Si aggira un nuovo «spettro»?) L’ «ombra di Berlinguer», dunque, ha ancora a che fare con il «tabù della costituzione». Ha a che fare con «la convinzione che essere democratici comporti essere fedeli alla Costituzione, a qualunque costo. Anche a costo di rinunciare a un miglior funzionamento della nostra democrazia».
Sono ormai alcuni lustri che esiste una letteratura, spesso di altissimo livello, sulla «crisi della democrazia» a partire dal momento dell’ «inversione della direzione», come direbbe Walter Benjamin. A partire, cioè, dalla fine di quelli che sono stati chiamati «gli anni dell’oro». Ebbene di una problematica di tale rilievo non c’è nessuna traccia nelle pagine della Mancina che pensa di aver trovato l’essenza del rapporto tra Berlinguer e la democrazia nell’affermazione del segretario del Pci relativa al fatto che una profonda trasformazione della società italiana non sarebba stata possibile con un governo del 51%.
Per ognuno dei punti indicati, «modernità», «identità», ecc. si potrebbero fare analoghe constatazioni. Del resto basta scorrere la «Bibliografia» per verificare l’assenza di ogni riferimento a dimensioni analitiche fondamentali per qualsiasi «riflessione». È possibile una «riflessione», in particolare da parte di studiosi professionali, in assenza di categorie storiche e teoriche capaci di «vedere di più»?