Nel lento percorso del disegno di legge sulle unioni civili, fa discutere l’emendamento (a prima firma Fattorini) approvato mercoledì dalla commissione giustizia del Senato: una premessa all’articolo 1 che definisce l’unione tra persone dello stesso sesso una «specifica formazione sociale». Sul significato di tale voto, che nel movimento lgbt viene visto come un brutto segnale, abbiamo sentito la costituzionalista Barbara Pezzini, docente all’Università di Bergamo, esperta di studi giuridici su orientamento sessuale e identità di genere.

Professoressa, ci aiuti a capire la qualificazione dell’unione civile come «specifica formazione sociale».
Cosa significa questa dizione – che richiama l’articolo 2 della Costituzione e le due sentenze della Corte costituzionale sul tema (138/2010 e 170/2014) – lo capiremo meglio a seconda del contenuto degli articoli che verranno dopo. Certo serve a rafforzare l’enfasi sulla distinzione dal matrimonio. Il legislatore ha scelto di non procedere sulla strada del matrimonio per tutti, come secondo me avrebbe dovuto fare, ma ha preferito creare un doppio binario: il risultato può essere la nascita di un istituto giuridico analogo al matrimonio oppure qualcosa di decisamente inferiore.

La famiglia continuerà ad essere solo quella fondata sul matrimonio riservato agli eterosessuali?
Il segno politico del ddl è chiaro: la «vera» famiglia è solo quella. Ma nel quadro europeo le distinzioni care al legislatore italiano diventano incomprensibili, perché già superate. La strada è per fortuna segnata, è solo questione di tempo: sarà impossibile differenziare le unioni che sono «famiglia» da quelle che non lo sono, e cioè sarà impossibile non riconoscere a tutte gli stessi diritti. Resterà una mera distinzione ideologica, propria di chi fa battaglie di retroguardia.

Un altro emendamento che probabilmente verrà approvato porterà all’eliminazione dei riferimenti agli articoli del codice civile che riguardano il matrimonio, sostituiti da un elenco di diritti: un altro passo indietro?
Rischia di esserlo, senza dubbio. Una scelta del genere complicherebbe la vita delle coppie di persone dello stesso sesso. Le eventuali differenze più macroscopiche verrebbero poi sicuramente eliminate dalla corti di giustizia, ma per arrivare a quel risultato le coppie dovranno sempre compiere un lungo e faticoso iter.

È ammissibile, alla luce della giurisprudenza nazionale e internazionale, un’unione civile che non contenga tutti i diritti del matrimonio?
Io credo che una legge sulle unioni civili come quella in discussione potrebbe superare l’esame della Corte di Strasburgo (Cedu), ma solo temporaneamente. Al legislatore nazionale è riconosciuta una discrezionalità, e quindi l’eventuale legge passerebbe l’esame di Strasburgo. Ma sarebbe solo una questione di tempo: alla distanza, ogni forma di trattamento differenziato è destinata a cadere, perché irragionevole. Il numero dei Paesi europei dove vige la piena eguaglianza è in costante aumento: non appena la Cedu registrerà che esiste un consenso fra la maggioranza degli stati, dirà all’Italia di adeguarsi e approvare il «matrimonio per tutti».

Facciamo l’ipotesi che anche questa volta il parlamento, alla fine, non approvi alcuna legge. Cosa accadrebbe, alla luce della recente sentenza Cedu che ha condannato l’Italia per non avere nessuna norma che riconosca le unioni «same-sex»? Le coppie di omosessuali potrebbero rivolgersi ai tribunali per ottenere risarcimenti?
L’ipotesi dei risarcimenti diretti è difficilmente percorribile. Le coppie dovrebbero arrivare fino a Strasburgo attraverso il percorso fra i tribunali nazionali: a quel punto lo Stato verrebbe nuovamente condannato. È ovvio che più si tarderà ad approvare una norma, più rapido diventerà l’iter per arrivare davanti alla Cedu.

Nel movimento lgbt c’è chi sostiene che sia meglio nessuna legge piuttosto che una cattiva legge: senza norma si aprirebbe la possibilità di ottenere il matrimonio egualitario attraverso decisioni dei giudici. Cosa ne pensa?
L’effettiva tutela dei diritti ha bisogno dell’integrazione del piano legislativo con quello giurisdizionale. La strada della protezione soltanto attraverso le corti non è pienamente efficace: la garanzia dei diritti sono una responsabilità del legislatore. Detto ciò, non sono ottimista sulle capacità del parlamento: su questi temi esistono ostacoli connessi proprio allo sviluppo del nostro sistema politico, nel quale è strutturalmente difficile la rappresentanza degli interessi connessi a tutte le questioni di genere.