Un sequel spirituale di La vita è un sogno, e una continuazione di Boyhood. Così Richard Linklater descrive Tutti vogliono qualcosa, l’ultimo tassello del suo multigenerazionale mosaico vivente (di cui fanno parte, oltre ai film di sopra, anche Slacker e l’animato Waking Life), ambientato sullo sfondo di un Eden del sudovest texano che – nella fotografia calda, elegante, di Shane Kelly, su una raffinata colonna sonora di greatest hits d’epoca – non è mai sembrato così idilliaco e, allo stesso tempo, così irrimediabilmente perduto. Il tempo –nel piacere, nelle asprezze e nell’inesorabilità del suo trascorrere – è uno dei temi fondanti del cinema di Linklater, un cinema più di istantanee che di racconti, che si consumano in un giorno, una notte o anni, attraverso uno sguardo venato di elegia.

In questa linklaterland spesso punteggiata di tocchi autobiografici, e di cui ormai ci sembra di conoscere i personaggi (non solo quelli che tornano di film in film, come Celine e Jessie, nella trilogia Before Sunrise/Sunset /Midnight) Tutti vogliono qualcosa è il momento più nostalgico, un film in cui, anche stilisticamente, l’occhio documentario di Boyhood cede a una dimensione più classica, rituale.

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Una specie di American Graffiti degli Eightes. L’altro titolo a cui inevitabilmente si pensa guardando questo squarcio di college life pochi giorni prima dell’inizio dei corsi è Animal House (1978), snodo rivoluzionario della commedia americana reso possibile, oltre che dal genio di John Landis e dallo spirito feroce di National Lampoon, dall’intuizione di un giovane executive della Universal, Sean Daniels, che ha prodotto anche il film di Linklater (insieme a La vita è un sogno e ad altri classici del teen age movie, come Sixteen Candles).

La casa davanti a cui si ferma la Oldsmobile coupé della matricola Jake (Blake Jenner, un volto fresco e pressoché sconosciuto, come gran parte dello splendido cast), armato di valigia e di un pacco di lp, ricorda infatti quella che ospitava i temibili Delta. Ma l’anarchia dei sixties, che animava Bluto, Otter e gli altri, nella loro titanica lotta contro il nixoniano Dean Wormer, si è dissolta in una vibe molto più rilassata –boys just want to have fun, i ragazzi vogliono solo divertirsi. Alla fraternity simbolo delle università del nordest e del potere wasp, Linklater sostituisce una squadra dell’adorato baseball (sfondo di alcuni suoi film). Nella traduzione italiana del titolo (l’originale è Everybody Wants Some!!), si perde il sottinteso dell’obiettivo che motiva tutti i personaggi, è che è incarnato da una delle prime immagini sui cui Jake posa gli occhi guidando attraverso il campus, quella di due belle ragazze bionde. Il pensiero fisso continua seguendo lo snodarsi di una pompa da giardino che, dal prato della casa/dormitorio dove Jake abiterà, sale ai piani superiori, in cui i suoi futuri compagni di squadra stanno riempiendo un materasso ad acqua. Un mega party e già in vista.

Tutti vogliono qualcosa inizia dove è finito Boyhood, con Mason, il ragazzo protagonista, alla soglia del college. Linklater, che aveva calato parte di se stesso nel personaggio di quell’ adolescente dolce e taciturno, ha descritto Jake, rispetto a Mason, come la versione «più estroversa, festaiola» di se stesso.

Billy (Will Brittain), con cui condivide la stanza, è un red neck di provincia, con l’accento strettissimo e che tutti prendono in giro perfidamente; McReynolds (Tyler Hoecchin), con gli occhi azzurri e i baffi neri a manubrio, detesta perdere, persino a ping pong; Roper (Ryan Guzman) passa ore davanti allo specchio e non è intelligentissimo; Willhoughby (Wyatt Russell) è l’irreprensibile hippie che nasconde un segreto; Finn (Glen Powell) quello che sa parlare, è una specie di coro greco del gruppo. Ragazze e alcol sono il loro carburante, anche se le prime non sarebbero ammesse al secondo piano della residenza e il secondo non sarebbe ammesso del tutto. Entrambi scorrono a fiumi.

Linklater filma questa golden age spensierata e per niente politically correct con affettuoso senso del ridicolo. Nei loro riti, nella loro vanità e nel senso di importanza di se stessi questi atleti/studenti ricordano i businessmen greci nel bellissimo Chevalier , di Athina Tsangari. Ad eccezione di Beverly (Zooey Deutch, la figlia di Lea Thompson), la studentessa di teatro per cui Jake si prende una cotta – e grazie alla quale siamo tutti invitati a una mega festa in costume organizzata dall’ala più intellettuale del college- qui le ragazze fanno più o meno da tappezzeria. Ma sono in genere più mature, più decise e più liberate dei nostri eroi. In quel senso, Tutti vogliono qualcosa è un film «femminista».

L’altro grande carburante di questa non storia – come spesso nell’opera di Linklater – è la musica. Ogni pavimento può trasformarsi in una pista da ballo e, nelle loro quest, con il semplice aiuto di un cappello o di una maglietta, Jake e i suoi transitano ineffabilmente dalla disco di Blondie, con Heart of Glass, al country, al primo rap di Sugarhill Gang, allo spigoloso punk texano (un favorito dagli anni universitari del regista) alla Bohemian Rhapsody con cui iniziava la commedia demenziale di Penelope Spheeris Fusi di testa. Tra le scene più belle, una scampagnata nel bosco, con bagno nel torrente a cavallo di enormi pneumatici. Linklater cattura un momento magico, di gioia perfetta. E noi lo viviamo con i suoi personaggi. È un momento che si concluderà alla fine del week end, con l’inizio della scuola. Ma Jake e gli altri non lo sanno (ancora). Il che non importa: perché la scommessa di Tutti vogliono qualcosa è fare durare quel momento per sempre.