È una geografia degli affetti quella che Nadia Terranova consegna al suo ultimo libro Come una storia d’amore, edito da Giulio Perrone e composto da dieci racconti (pp. 114, euro 15). Seguendo il titolo, è proprio nel modo che la scrittrice cerca di dare parola alla sottigliezza di un sentire che dell’amore ha una parvenza, somiglia in quel «come» a una esperienza antica di intimità che si è scelto di non lasciare più andare e che diventa la stessa stoffa narrativa.

IN QUESTO SENSO ci troviamo dinanzi a un’unica parabola, invita alla gentilezza di una pronuncia delicata che si deve alle cose care, insieme al graffio sul cuore che ha ancora molto da riferire. Ecco perché all’eccesso dell’innamoramento si preferisce la misura di cui si segnalano le coordinate, nello spazio e nel tempo delle età. Che gli affetti più importanti siano quelli che non vengono pronunciati ci si rende conto già dalle prime righe. Dall’abitudine delle parole di una sorella con cui si fa un pezzo di strada fino all’inventario sentimentale di un abbandono indifferente al passaggio umano, o ancora la semplicità disarmante con cui delle penne spaiate interferiscono da una vita precedente. Non si tratta di un guado temporaneo bensì della forma con cui si scava la propria «palude», lo dice bene la protagonista del racconto La lavanderia sbagliata: «Ho lasciato che ogni situazione dentro cui mi ero ritrovata si staccasse da me con una gradualità che mi sembrava necessaria. Non sono tipo da lacerazioni, mi dicevo». E infatti a non essere mai convocato è lo spavento di essersi sentite esposte, in un momento preciso, la scomodità di non aver trovato argine alla propria esitazione.
La fisionomia di questa assenza è allora ancora più interessante perché è passandoci attraverso che Terranova tocca tutti i nomi dell’amore scomparso, spesso congedato quando non già perduto, nello slittamento di significato che sta sempre nei dintorni di ciò che si desidererebbe accanto.
Così affiora il corteggiamento di una città scelta, inventata ogni giorno, Roma, a cui le donne al centro dei racconti approdano e che si sdoppia in R. con cui, in una lunga lettera, si stabiliscono sguardi segreti tra amanti carichi di promesse che non si possono mantenere. Le strade della capitale, presenti in tutti i racconti, sono traiettorie di uno smarrimento adorato, dal Ghetto a Porta Maggiore, dal Pigneto fino al raccordo – fuori o dentro si potrebbe addirittura osservare una sorte diversa – e nuovamente nelle piccole piazze rivisitate dopo anni. Nel suo movimento vi è una fedeltà all’oggetto amato e ritrovato, ancora non racconta tutto dell’amore ma gli assomiglia nel suo infinito intrattenimento.

NELLA PAUSA DI STARE sempre un passo al di qua, i corpi che incontriamo sono già segnati da una infanzia irrinunciabile, se la portano dietro nella leggerezza di spingersi verso una lingua che si possa leggere al contrario, la riscoprono nella fragilità che sfiora l’inermia quando le emozioni, come succede a Veronica, «si sono prese una vacanza» a causa di uno shock.
Per la stessa ragione, invece del piacere incontriamo talvolta il dolore, quello che assedia Paola fino a sabotarla. E ancora il pungolo della solitudine. Eppure tutta questa intermittenza del vivere, questa ordinaria messa alla prova di una estraneità in cui abitare e che spesso prende a dimorare presso noi stessi, è ciò che avanza quieto là dove comprendiamo che «il mondo non ha il dovere di occuparsi della nostra felicità».
Più che della nominazione di ciò che rischia di essere frainteso, dovremmo prenderci cura, sembra suggerire Nadia Terranova, della realtà; tra le sue pieghe troviamo la storia più grande di un riparo, non di una riparazione, in cui finalmente poter sentire e stare, con amore.