Alla questione che Thomas Mann poneva agli studenti di Amburgo nel lontano 1953 – se si dovesse avere una Germania europea o un’Europa tedesca – le classi dirigenti hanno già risposto nella maniera peggiore. Ma non per questo la questione è chiusa per sempre. Gabriele Pastrello – La Germania: problema d’Europa? Asterios, pp. 74, euro 7 – torna a ragionarci sopra in un libro denso, ma scorrevole che interviene con grande rigore nel dibattito sul ruolo della Germania nella più grande crisi economica del capitalismo europeo. Malgrado le ridotte dimensioni, l’autore non adotta uno stile pamphlettistico. Non troviamo invettive, né l’adagiarsi su un crescente sentire antitedesco – dopo il trattamento riservato alla Grecia da un lato e l’affaire Volkswagen dall’altro – ma lo snodarsi di argomentazioni che ci dipingono, quasi con stile espressionista, un quadro della Germania di oggi. Un pregio se non raro, certamente infrequente.

L’autore si pone in primo luogo il compito di demolire alcuni luoghi comuni. come quello di una crescita virtuosa basata sulle proprie forze. «La Germania, si può dire, è stato in tutto il dopoguerra il parassita delle politiche keynesiane mondiali. Il mondo cresceva grazie a quelle, e così le esportazioni tedesche». Il Piano Marshall aveva, anche, questo scopo. La Conferenza di Londra del 1953 – richiamata giustamente dai greci come possibile modello per risolvere il problema dell’oggi – condonò i debiti di ben due guerre mondiali alla Germania per permetterle di ripartire. Un’altra parte fu rimandata a dopo l’unificazione tedesca. Ma quando questa ci fu – e Pastrello giustamente la chiama «annessione», uno snodo essenziale nella crescita tedesca – Kohl si oppose a riaprire la questione. E la Merkel lo ha recentemente ribadito in modo stizzito.

La ferocia di un primato

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Naturalmente, come si è visto nel caso greco, la Germania non ha restituito il favore a nessuno. Anzi ne ha approfittato per costruire il suo primato nel contesto europeo, pur cercando di nascondere l’aggressività e il cinismo di questo lungo processo «sotto le spoglie della pacifica concorrenza, di una superiorità meritata e ( in teoria ) non inibita agli altri». Per farlo si è dotata di una teoria economica che viene da lontano e che oggi attraversa, seppure in misure diverse, i partiti della Grosse Koalition, socialdemocrazia inclusa. Si tratta dell’Ordoliberalismo che muove i suoi primi passi da un manifesto stilato a Friburgo nel 1936 ad opera di Walter Eucken, Franz Bohm e Hans Grossman-Dorth, economisti e giuristi di ambiente cattolico e liberale. Con quel progetto essi cercavano già di delineare il futuro di una Germania postnazista, fondato sulla «fiducia dogmatica che la libertà della concorrenza producesse spontaneamente libertà politica, crescita economica e progresso sociale».

L’idea non è poi tanto diversa da quella che diede il via all’attuale Unione europea. Cioè passare, per via progressiva e quasi naturale, dalla liberalizzazione dei mercati a una costruzione politica e istituzionale unitaria. Il primo significato di ordo era «ordine naturale». Ma poiché si vide ben presto che da solo questo ordine non si imponeva, prevalse il secondo significato del termine, cioè gerarchia, attraverso la quale decostruire e ricostruire costituzioni e leggi, ridisegnare lo spazio politico e geografico. È quanto avviene sotto i nostri occhi, con lo strutturarsi in senso sempre più autoritario del sistema di governance della Ue. Un processo che si è accentuato per diretto impulso della Germania particolarmente dal 2010 in poi, come reazione delle elite dirigenti europee alla crisi economica, con il Fiscal Compact, il Two Pack e il Six Pack. Il recente documento dei cinque presidenti è un ulteriore passo in avanti su questa strada. Così come l’unione dei mercati dei capitali (Cmu nell’acronimo inglese) che si propone l’abbattimento dei residui controlli sui movimenti di capitale, affidando quindi alla finanza privata la soluzione della crisi, dopo che questa ne è stata una delle principali responsabili.

Per quanto Walter Eucken sia stato uno dei fondatori della Mont Pelerin Society, il centro pensante dell’estremismo liberista dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, va conservata una differenza fra quest’ultimo e l’ordoliberalismo. Per la scuola austriaca dei Mises e degli Hayek, i neoliberisti per eccellenza, lo Stato è pura negatività – come fu nella propaganda e più o meno nella pratica di governo di Reagan e della Thathcer –; per gli ordoliberali lo Stato può essere un mezzo utilissimo, purché al servizio del mercato. L’atteggiamento di questi ultimi nei confronti del movimento operaio e sindacale è stato quindi più avvolgente che non distruttivo. Almeno fino a un certo punto. Lo dimostra l’esperienza della Mitbestimmung in Germania, grazie alla quale nelle imprese medio grandi rappresentanti di lavoratori siedono in consigli di sorveglianza. Ma questo sistema mostra oggi evidenti crepe e non ha impedito la grande truffa della Volkswagen.

Un ospite inatteso

Queste differenze si riverberano anche nella dialettica che si è aperta in seno ai gruppi dirigenti tedeschi. La prospettiva di Schauble e di Issing delineata per la Grecia, la Grexit, corrisponde in realtà ad una visione gerarchizzata in senso anche geografico dell’Europa, ridotta a puro spazio tedesco, di schmittiana memoria, che può o anche deve scontare la fuoriuscita dei paesi mediterranei. In una intervista dello scorso luglio, Otmar Issing giungeva a denunciare un ruolo politico da parte della Bce per i suoi interventi in salvataggio dell’Euro. Con l’espulsione dei paesi più deboli, rimarrebbe così uno spazio più ristretto ma più coeso, al quale la Francia fornirebbe copertura politica, non senza tensioni con il confinante germanico, per permettere al modello tedesco di competere più spregiudicatamente nella globalizzazione mondiale.

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Ma qui, avverte opportunamente Pastrello, si affaccia un altro attore, gli Usa, per nulla convinti di cedere il loro antico primato mondiale. Ne è prova il Trattato transoceanico di libero scambio (Ttip), che travolgerebbe ogni lascito della civiltà giuridica europea, fornendo «alle grandi multinazionali statunitensi un quadro istituzionale quanto più vicino alle loro condizioni di partenza per permettere loro di potere galoppare in uno spazio europeo».
E le sinistre? In realtà la socialdemocrazia tedesca, punta di diamante di quella europea, vive una profonda crisi ed anche le istituzioni frutto di quel compromesso sociale che l’ha vista protagonista ne soffrono acutamente, incapaci di reagire al giro di vite imposto dalla governance europea. Per questo sarebbe illusorio, anche se qui Pastrello si mostra più indulgente, fondare sulla socialdemocrazia le speranze per una salvezza dell’Europa. La strada, non facile, è quella di potenziare la crescita di una sinistra di alternativa, come quella che abbiamo visto in Grecia e in questi giorni in Portogallo. Cui compete di mantenere viva la possibilità di dare vita a un’Europa unita e democratica, su base federale e con politiche di nuovo sviluppo sociale. Solo così potrebbe riaprirsi qualche varco anche in casa socialista, come appunto ora a Lisbona.