Diversamente da quanto scritto da diversi commentatori, il G7 conclusosi a Taormina è stato, forse per la prima volta, un evento dagli esiti politici chiari e, tutto sommato, abbastanza positivi almeno sulla questione dei cambiamenti climatici.

L’elezione di Trump, da sempre su posizioni negazioniste sui cambiamenti climatici e con una piattaforma «America First» che sull’energia è tutta pro fossili e nucleare, aveva allarmato la comunità internazionale che alla scorsa Conferenza delle Parti a Marrakech aveva lanciato il messaggio «andiamo avanti comunque» che poteva apparire solo una reazione d’orgoglio con poca sostanza.

A Taormina abbiamo invece visto che non è così: sui cambiamenti climatici la posizione dell’amministrazione Trump – che formalmente deciderà nei prossimi giorni – è apparsa isolata. Dunque, con una battuta: se il G7 sul tema è in stallo, c’è un G6 che invece ha ribadito di voler andare avanti.

Vale la pena di ricordare che pochi giorni prima di Taormina c’era stata una riunione a Berlino del Petesberg Climate Dialog, convocato dalla Cancelliera Merkel, in cui Canada, Unione Europea e Cina hanno convenuto che, se gli Stati Uniti dovessero sfilarsi dall’Accordo di Parigi, questi Paesi continueranno comunque nell’impegno. In particolare il rappresentante cinese Xie Zhenhua ha ribadito che «la Cina manterrà fede agli impegni sottoscritti». Vedremo che fine farà l’accordo Cina-Usa di cooperazione tecnologica da mille miliardi di dollari: se Trump abbandona il campo, l’Europa deve alzare il suo ruolo di leadership, cosa che ha già iniziato a fare.

Il prossimo passaggio sarà al G20 in Germania a luglio, dove partecipano anche i Paesi emergenti.

Dunque una frattura come quella emersa a Taormina non si era mai vista e vale la pena di sottolineare il richiamo fatto dal Presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni nel discorso conclusivo al fatto che l’Accordo di Parigi è un «pezzo del nostro futuro» e la citazione del nesso tra impatti dei cambiamenti climatici e aumento di pressione migratorie, con cui ha tracciato una linea chiara, in piena continuità con l’Accordo di Parigi. Una novità positiva, dato che i nostri governi in passato hanno sempre giocato al ribasso o, al massimo, di sponda sul tema climatico.

Oggi vi è una nuova dialettica tra una linea «nazionalistica» e protezionista – come esito della crisi di una globalizzazione che non ha tenuto conto dei costi sociali e ambientali – e chi sta nel campo del «globalismo».

Nel campo globalista c’è una contrapposizione tra la posizione dominante liberista – il commercio prima di tutto – e quella di chi vuole invece globalizzare i diritti sociali e ambientali. Per questa seconda posizione, impersonata anche dalla società civile organizzata, si aprono spazi nuovi. La posizione liberista è infatti in profonda crisi: proprio i “motori” di una globalizzazione senza diritti – il mondo angloamericano – sono ripiegati nei loro confini tra la Brexit e l’amministrazione Trump che cerca di mettere i dazi sulle importazioni canadesi.

La posizione “sovranista” – al di là delle diverse coloriture – rischia di far prendere una deriva che porta ad altri conflitti potenzialmente assai pericolosi: la spinta all’”autarchia”, oltre a essere impraticabile, non ha portato bene nella storia.

Occorre cambiare la traiettoria della globalizzazione dando agli obiettivi ambientali e sociali il posto che meritano e senza i quali la globalizzazione implode con conseguenze potenzialmente catastrofiche. L’Accordo di Parigi – ripeto ancora – è anche un accordo per la pace: non è sufficiente da solo, ma è necessario a stabilire un quadro di governance e di obiettivi comuni e condivisi dalla comunità internazionale, a dare impulso alla cooperazione economica per ricostruire su nuove basi il sistema energetico globalmente.

In ultimo ma non meno importante: la recente approvazione del Trattato Ceta di libero scambio col Canada, invece ripercorre esattamente lo schema del Ttip. E cioè uno schema basato su «il commercio sopra tutto», improntato proprio alla globalizzazione che riduce i diritti che è concausa del nazionalismo e protezionismo emergente. Il Parlamento italiano è chiamato a ratificarlo: è bene che lo respinga e che invece proponga uno schema di trattato che incorpori gli obiettivi ambientali e sociali.

*Direttore Greenpeace Italia