La guerra non è mai stata al centro degli interessi scientifici di Max Weber ed Émile Durkheim, i due founding fathers della sociologia, nonostante abbia impattò profondamente le loro biografie. Durante la Prima guerra mondiale, Weber prestò servizio come direttore amministrativo di un ospedale militare e partecipò attivamente al dibattito sulla conduzione del conflitto, in particolare in relazione alla scelta di scatenare la guerra sottomarina «rafforzata». Sull’altro fronte, Durkheim pagò un pedaggio pesante al conflitto. Sui campi di battaglia della Grande guerra perse non solo il figlio André ma anche molti dei migliori allievi e collaboratori, fra cui Robert Hertz. Una volta iniziate le ostilità, di cui non avrebbe visto la fine, Durkheim si era impegnato in prima persona nel sostegno allo sforzo bellico del proprio paese per ragioni legate alla sua profonda adesione ai valori terzorepubblicani e non solo all’esigenza di dissipare le accuse di scarso patriottismo che inevitabilmente, nell’atmosfera di quei tempi, gravavano su un ebreo di origini alsaziane dal cognome inequivocabilmente germanofono.

Tale impegno si concretizzò in Qui a voulu la guerre?, una ricerca di storia diplomatica in tempo reale, condotta in collaborazione con lo storico Ernest Lavisse, sugli eventi che avevano condotto alla guerra e nella partecipazione alle Lettres à tous les francais, una serie di missive scritte da vari autori allo scopo di consolidare il fronte interno e la fiducia in una vittoria sicura anche se non imminente, raccolte in volume nel 1916. Fra queste due pubblicazioni ne uscì una terza, La Germania al di sopra di tutto, scritta dal solo Durkheim, che immediatamente tradotta in italiano dall’editore Armand Colin viene oggi riproposta da Aragno (pp. 102, euro 12) con la prefazione di un autorevole studioso del sociologi francese, Mario Toscano.

Responsabilità imperiali

Se il fine di Qui a voulu la guerre? era dimostrare, documenti alla mano, la responsabilità esclusiva degli imperi centrali nello scatenamento delle ostilità, La Germania al di sopra di tutto si propone di scavare più a fondo, oltre la contingenze degli eventi, per cogliere il motore che ha reso necessario quanto era solo possibile. A parere di Durkheim, tale fattore è una particolare forma di coscienza collettiva, a suo parere patologica, ossia la mentalità tedesca. Per coglierne i tratti Durkheim non si affida a indagini ad ampio raggio ma si concentra sull’opera o, meglio, su un’opera (Politik) di Heinrich Treitschke, figura che, mettendo il proprio potente impeto retorico al servizio di una prospettiva che coniugava spirito reazionario e volontà imperialistica, aveva guadagnato un ampio seguito presso l’opinione pubblica e le élite politiche tedesche negli ultimi decenni dell’Ottocento.

A orientare Durkheim verso tale opzione non è una particolare stima per l’autore quanto l’idea che la sua opera si presenti come un distillato puro di quella mentalità tedesca di cui intende cogliere il segreto. In tal senso, Treitschke viene colto come una sorta di dispositivo collettivo di enunciazione, di ipostasi della coscienza collettiva. Del suo pensiero, infatti, viene detto che «è meno quello di un uomo che di una collettività».

Al centro della mentalità tedesca, a parere di Durkheim, si colloca l’idea della separazione dello stato dalla società. Si tratta di uno schema tipicamente hegeliano semplificato e irrigidito da Treitschke, in cui la società civile (o, meglio, la «società borghese») si presenta come il luogo di interessi particolari e di una conflittualità che solo la trascendenza dell’unità statale può portare a sintesi. Tale posizione non poteva che incontrare il rigetto da parte dell’organicismo durkheimiano, incline a fare dello stato una funzione della società. Ma la questione non è solo teorica.

L’attenzione di Durkheim, infatti, si indirizza nei confronti di quelle che ai suoi occhi appaiono le conseguenze nefaste della scissione stato-società. Per Treitschke lo stato, per le funzioni che svolge e l’ambito in cui opera, si caratterizzerebbe per una morale completamente diversa da quella assegnabile agli individui. Poiché l’esistenza del popolo e della società dipende dallo stato, l’imperativo inderogabile che grava su quest’ultimo è quello dell’autoconservazione. Ma, nell’ambiente competitivo dell’arena internazionale, l’unico modo che esso ha per conseguire tale obiettivo è la potenza, alla cui acquisizione tutto deve essere subordinato.

Barbarie collettive

Qui, starebbe, secondo Durkheim, la chiave per comprendere come individui che presi singolarmente possono apparire civili e ragionevoli possano agire collettivamente in maniera barbara, come mostrerebbe la determinazione nel volere la guerra, la violazione della neutralità del Belgio, l’irrisione dei trattati (pezzi di carta da stracciare, secondo l’ espressione del cancelliere Bethman-Holweg), i crimini di guerra (che, a onore del vero, durante la Prima guerra mondiale non furono monopolio esclusivo dei tedeschi).

Ma a questo punto, anche tenendo per buona la versione dei fatti fornita, si potrebbe osservare come quegli stessi comportamenti che Durkheim attribuisce alla patologia tedesca caratterizzassero anche la sua parte, ossia la Francia o l’Inghilterra, in quanto potenze coloniali. Se la frattura fra stato e società gli appare al centro della mentalità tedesca non si può non rilevare come una diversa opposizione, geografica, resti sottesa al testo durkheimiano. Ci riferiamo alla distinzione fra ambito della società internazionale, dove valgono le leggi della «civiltà», e quegli spazi al di là della linea dello ius publicum europaeum, per citare Carl Schmitt, dove vige una differente «morale» e le pratiche stigmatizzate nei tedeschi divengono lecite e legittime. Le colonie non sono assenti nel testo di Durkheim, e tuttavia la loro evocazione, in un paio di passaggi, non sembra generare i dubbi che sarebbe lecito attendersi nel discorso universalista di Durkheim.

Ambizioni continentali

Da oltre un secolo, più o meno ogni generazione di europei si è trovata, a un certo punto, a fare i conti con il problema della Germania. Con uno stato troppo forte per essere uno stato come gli altri ma allo stesso incapace di esercitare una funzione egemonica se non in termini brutali e distruttivi. Ovviamente, la storia non si ripete pedissequamente. Un conto erano le ambizioni alla Welpolitik del Reich guglielmino, ben altra cosa i progetti di genocidio del Terzo Reich. Su un registro ancora diverso si muove il fanatismo ordoliberale della Bundesrepublik di Merkel, Schäuble e Schultz.

La chiave di lettura fornita da Durkheim per il «problema Germania» del suo tempo, pur nella sua contraddittorietà, sembra gettare luce su ulteriori passaggi della storia tedesca, per esempio sul terrificante zelo con cui burocrazia ed esercito si impegnarono durante il nazismo ad eseguire qualsiasi ordine proveniente dall’autorità legittima. In ambito nazionalsocialista, tuttavia, lo stato già non ci appare al di sopra di tutto ma subordinato ad altre istanze mobilitatrici e ordinatrici, segnatamente la razza e il partito. E venendo al presente, anche oggi il «problema Germania» sembra avere a che fare con un «al di sopra di tutto», con un über alles che in questo caso assume le forme della tutela, costi quel che costi, di quell’ordine proprietario a cui viene affidata una funzione formatrice, tramite la concorrenza, nei confronti delle relazioni non solo economiche ma anche sociali e politiche. Si tratta di quell’economia sociale di mercato su cui a lungo si è equivocato, cogliendo nel riferimento al sociale della formula un correttivo del mercato anziché una sua conseguenza.