È avvolgente l’impatto visivo e sonoro che l’intreccio tra musica, danza, canto e scenografia dell’Orphée et Euridice di Gluck, in questi giorni alla Scala, suscita. Riscrive lo spazio rendendolo danzante insieme a tutti quelli lo abitano: l’orchestra, il coro, i tre cantanti protagonisti, i danzatori. Sì, perché questa regia firmata a quattro mani da John Fulljames e dal coreografo Hofesh Shechter, vive dentro un allestimento scenografico in cui i luoghi della danza, la posizione dell’orchestra, i movimenti del coro e dei cantanti creano un favoloso campo magnetico di emozioni che sull’onda portante della musica si espande nella sala.

L’orchestra scaligera e il direttore Mariotti sono posizionati al centro della scena, su una piattaforma che sale, scende, si inabissa. Amour, in completo d’oro, è nascosta tra gli orchestrali, gli dei hanno pietà di Orfeo, perché incantati dal suo canto, e quindi Amour, che dall’orchestra emerge circondata visivamente dalla musica, ne conferma anche spazialmente il magico potere. Il coro appare all’inizio dell’opera da sotto il porticato sovrastato dalla piattaforma dell’orchestra: avanza insieme ai danzatori della compagnia di Shechter formando quella comunità che piange Euridice insieme a Orfeo.

Il canto è accompagnato da semplici movimenti di braccia, gli stessi dei danzatori, che poi si staccano dal coro scivolando in linee fluide. Shechter plasma il suo stile di danza viscerale, calato nella terra, sulla musica di Gluck, così lontana dagli abituali ritmi percussivi delle sue partiture (il coreografo è anche musicista), modulandone il respiro collettivo: aspro e contratto nelle Furie, sospeso nei Beati Spiriti, festoso nelle generose danze che chiudono l’opera celebrando lo spirito umano. Intanto da buchi e fessure del soffitto ligneo, anch’esso in movimento, le luci di Lee Curran filtrano nell’Ade per stretti coni luminosi: e anche nel contrasto bronzeo di chiaroscuri riconosciamo la mano di Shechter e dei suoi fedeli collaboratori.