I suoi capelli in battaglia di L’homme fidèle e The Dreamers, già domati due anni fa per interpretare Jean-Luc Godard in Le redoutable, hanno subìto una definitiva tabula rasa per il ruolo di Alfred Dreyfus in J’accuse (tradotto in Italia con L’ufficiale e la spia), ora in concorso a Venezia: un taglio «all’umberta», militaresco avvilimento fine ‘800 del cranio, che il giovane attore-regista di 36 anni ha esibito fieramente ai Rendez-vous di Unifrance in gennaio, nei giorni delle riprese del nuovo film di Roman Polanski, divertendosi a mostrare sul telefonino altre immagini della sua «cine-depilazione», compensata da possenti mustacchi a manubrio.

Come si trova, Louis Garrel, nel look e nei panni della vittima d’un clamoroso errore giudiziario?

È un caso che ha diviso la Francia in due fazioni, facendole sfiorare un colpo di Stato. Il titolo francese, J’accuse, replica la celebre presa di posizione giornalistica di Émile Zola. Il film, dove sono in buona compagnia (Jean Dujardin, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric tra gli altri), racconta i retroscena dell’«affaire Dreyfus»: un thriller, tratto dal romanzo di Robert Harris, di cui Polanski aveva già portato sullo schermo The Ghost Writer.

Dopo i sei film in cui è stato diretto da suo padre, Philippe, cui ora la Cinémathèque dedica un omaggio, e dopo i sodalizi cinematografici e teatrali con Christophe Honoré e Luc Bondy, un salto improvviso in un’epoca e un cinema lontani da lei.

Ogni volta si cambia genere. È il destino dell’attore. Il mio prossimo film è firmato Woody Allen, tra i miei registi preferiti. Una volta la commedia, un’altra il dramma, un’altra il thriller, culla di dubbi, doppiezze, ambiguità: il mio sogno, purtroppo irrealizzato, è sempre stato di interpretare un film di Alfred Hitchcock.

Ha però sognato con Bernardo Bertolucci, suo primo Maestro…

The Dreamers! Avevo vent’anni. Quando mi ha chiamato non conoscevo nulla del suo cinema, a parte Le Dernier Tango à Paris, che avevo guardato di nascosto da ragazzino. Avevo un po’ paura di lui. Al primo incontro, m’ha parlato di Marlon Brando, aumentando la mia soggezione : io, un debuttante, che potevo fare dopo Brando? Ma, sul set, che meraviglia : mi punzecchiava, facendomi ridere, mi piace quando mi punzecchiano. In seguito sono spesso passato a trovarlo a Roma, sempre intimidito. Talvolta, mi chiamava dopo un mio film: «Stavolta, mmh…».

La maggiore qualità, per lei, di Bertolucci ?

Una grande sensualità. Non solo in The Dreamers, ma già in Novecento: i bambini che affondano i piedi nudi dentro gli escrementi di vacca … È il regista della sensualità, sempre. Non riesco a capire come riesca a far provare la bellezza d’un albero, d’un frutto, d’un pasto. Nel suo film, mi trovo pessimo, ma aveva mostrato una capacità geniale: fare delle riprese un momento d’esistenza. Che piacere girare con lui e che tristezza l’ultimo giorno. Al ciak finale, «The dream is over», ha detto: il sogno è finito.

Altro suo Maestro, Jean-Claude Carrière, sceneggiatore di leggenda, 140 film alle spalle, coautore eccellente di «L’Homme fidèle».

È uno dei miei miti. Jean-Claude è erudito, ma anche alla buona: combinazione speciale … Mi ha colpito sin dalla prima volta che l’ho visto a una trasmissione tv, dove raccontava di Miloš Forman che nel Sessantotto non capiva perché gli studenti volessero issare la bandiera rossa mentre lui, uscito dalla Cecoslovacchia, voleva ammainarla. Spiritoso e provocatore. Avevo visto il Danton di Wajda, molti dei suoi Buñuel… È un narratore unico. Quando comincia una storia, riesce a sorprendere continuamente chi l’ascolta, dribblando le sue attese.

Ai suoi Maestri (e alle sue «Maestre»: Valeria Bruni Tedeschi, prima che sposasse 2 anni fa Laetitia Casta), s’aggiunge ora Polanski : che non amava troppo la Nouvelle Vague, scandalizzandosi davanti al modo di (non) girare dei suoi registi.

Io però son sempre stato un ammiratore di Jean-Pierre Léaud, mio padrino: è forse per emularlo che mi sono immerso nei corsi di teatro del mio collège e poi al Conservatoire del X° Arrondissement a Parigi. Carrière, come già Truffaut, predilige la voce fuori campo: è il momento in cui letteratura e cinema, scrittura e immagine vanno a braccetto. Di Truffaut, condivido il procedimento artistico: la sceneggiatura come critica del romanzo di partenza, il film come critica della sceneggiatura.

Delle lezioni dei suoi Maestri, qual è stata essenziale per «L’Homme fidèle», suo secondo film da regista?

Quella di Bondy : «Non cercare consequenzialità logica tra le azioni. Gli uomini si contraddicono. Un minuto dopo, ogni azione può esser contraddetta». Ho voluto astrarre L’Homme fidèle da una continuità psicologica. Se vogliamo che i personaggi siano umani, dobbiamo lasciar loro l’imprevisto, l’incongruo. Il film vuol rovesciare una certa idea della Francia libertina: è una sfida elegante ma all’ultimo sangue tra due donne. Niente Marquis de Sade ma piuttosto Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos.