Il ritratto di Rainer Maria Rilke si stacca da uno sfondo grigio-verde scabro, ruvido, qui e lì sabbioso. La capigliatura salda e ferma nei suoi toni castani ha l’immobilità di un copricapo mentre la barba e il solino che la incastona formano una severa compagine di colore che rammenta il sostegno d’una colonna più che quello d’una testa umana. Qualcosa di fisso, come di cavo idolo di terracotta, permane anche nel volto, ma quella pulsazione, che sembra essere sfuggita dai lineamenti, si ritrova come tutta nell’impasto cromatico, nell’interna vibrazione delle tinte, dal rosso all’ocra fino alle note più terragne e argillose.
Nella sua vigorosa semplificazione formale, il ritratto può far pensare a quelli di Gauguin che la Modersohn-Becker ebbe modo di ammirare in occasione della grande retrospettiva al Salon d’automne del 1905 o ai Nabis, visti all’esposizione degli Indipendenti. Tuttavia, nemmeno Denis, col suo sincero spirito religioso, giunse a dipingere qualcosa di tanto prossimo all’icona come il ritratto che Paula Modersohn-Becker fece di Rilke.
Il poeta e la pittrice s’incontrarono una prima volta nel 1900 a Worpswede, nella Bassa Sassonia. In questo piccolo villaggio a nord di Brema s’era riunita, sul calare del ventesimo secolo, una non vasta colonia di artisti con l’intenzione di detergersi di ogni accademica lordura; il fiume Hamme sarebbe stato il loro Giordano. Del gruppo facevano parte pittori come Carl Vinnen, Otto Modersohn, Heinrich Vogeler e la scultrice Clara Westhoff. Era una delle ultime incarnazioni dell’Arcadia romantica, un asilo al riparo della civiltà e dei suoi falsi idoli dove la natura si lasciava docilmente osservare senza infingimenti di sorta. Paula Modersohn- Becker fece qui le sue prime prove di pittrice, rappresentando il paesaggio vasto e talora brullo, in gradazioni di colori bruni, coi suoi alberi alti e allampanati come ceri, le zolle scure e il cielo striato sfumante nel grigio-cilestre.
Nella piccola comunità regnava un’atmosfera di onesta e costumata letizia. La brigata si scioglieva presto, al declinare del giorno: Rilke ci ha lasciato una descrizione di quel che doveva essere il cheto spengersi delle cose in questa Barbizon di Settentrione: «la sera è sempre bella, quando esco da quella casa. Trasparente come il vetro, campeggia un sottile spicchio di luna nel cielo giallo e ambrato. Il bosco è nero, e la sua frescura si sposta, anche senza vento, sul sentiero e sui prati vicini all’acqua. Là gli alberi frondosi sono già spogli e tutto lo spazio sembra immenso. Le cose, dai contorni sfumati, si stagliano sulla pianura come tante isole nell’aria del crepuscolo». Worpswede appariva allora come un semplice borgo rustico, non troppo diverso da quello che fa da sfondo agli amori di Werther e di Lotte; ma il legame tra Rilke e la Modersohn-Becker non ebbe nulla di procelloso, piuttosto qualcosa di tenero e rapito fuori dai sensi che il poeta, già allora collaboratore di «Ver Sacrum», descrisse attraverso l’immagine del giardino, caro al simbolismo tedesco, in cui due anime fioriscono allacciate in solitudine: «Due esseri crescono nello stesso giardino/ e questo giardino non è nel tempo».
Rilke in quegli anni era il dolce mistico di liriche quali Ich will ein Garten sein, an dessen Bronnen o Vor lauter Lauschen und Staunen sei still. La sua lingua, che nelle poesie della maturità si sarebbe fatta come di cesellato argento, era ancora molle, melica, diresti lattea. Una sensitività duttile, femminile, dominava il suo canto, quasi come d’argilla fresca: «Io sono così giovane. Io mi darei fremendo/ a ogni suono che passa accanto,/ nell’amata stretta del vento agitare i tralci/ come la selva sopra il viale». Le impressioni scorrevano via fra le maglie dei suoi versi come finissima sabbia fra le dita. Si sentiva un giunco, vincido e molle, una fontana d’acque calme e discrete che riceva, come una dolce conca, immagini fuggitive che non può trattenere.
Quale parte ebbe nell’anima di Rilke l’incontro con la pittrice? «Del tè mi attendeva. Una buona e ricca compagnia con cui condividere il dialogo e il silenzio. Veniva la sera, come un miracolo», si parlava «di tante cose che vanno ben al di là dell’ora e di noi stessi». Paula Modersohn-Becker era l’ascoltatrice eletta: «Quanto apprendo dal guardare queste due fanciulle, soprattutto la pittrice bionda dagli occhi d’un marrone intenso». Ma dal dialogo con la pittrice Rilke apprese, più di altre cose, a dare forma al suo sentire, vario e molteplice, attraverso l’esperienza della più plastica fra le espressioni, quella artistica. Poeta di un «erotismo elementare che trasforma le cose in odori e sapori, così come odori e sapori sono in fondo le rime, le allitterazioni e le assonanze profuse», Rilke voleva essere anche poeta dell’occhio. All’olfatto, al gusto, all’udito sarebbe succeduto il più fermo fra i sensi: la vista che squadra e che delimita.
Più tardi questa ricerca di un’espressione più marcatamente plastica lo avrebbe avvicinato a Rodin, al punto che della sua produzione lirica matura si potrebbe dire che aspiri alla scultura, come già aveva teso alla musica e alla pittura, volgendosi da ut pictura in ut scultura poësis. Che tale inquieta sensibilità per il linguaggio non fosse esclusiva preoccupazione del poeta, lo prova il fatto che, mutatis mutandi, si possa ritrovarla alla base delle innovazioni formali di un Loos o di uno Schönberg.
Paula Modersohn-Becker sembra aver ritratto Rilke in questa laboriosa ricerca di una nuova lingua poetica. La bocca, aperta nell’atto di pronunciare alcune parole scelte, è stato notato, costituisce il motivo centrale della composizione. Ma qualcosa nel dipinto della pittrice elude i tratti più specifici di Rilke per farne la rappresentazione del poeta per eccellenza o, forse ancor più, dell’artista. In tutti i ritratti della pittrice, certo, vi è un’ampia componente di semplificazione formale che spoglia il soggetto degli aspetti inessenziali. I volti sono rappresentati frontalmente, su uno sfondo uniforme, il che dà loro qualcosa di ieratico. Come diceva Bernard Berenson delle creazioni più soddisfacenti di ogni tempo, anche quella della Modersohn-Becker è arte ineloquente, non affrettata cioè dall’espressione, sicché pure le sue opere «rimangono mute, senza preoccuparsi di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto, il loro aspetto. Se qualcosa esprimono, è carattere, essenza, piuttosto che sentimenti o intenzioni di un dato momento. Ci manifestano energia in potenza piuttosto che attività. La loro semplice esistenza ci appaga».
Tuttavia, se paragoniamo il ritratto di Rilke ad altri coevi, come quello di Lee Hoetger o della sorella Herma, è impossibile non accorgersi di come questi più d’altri somigli a un’icona. È probabile che questa transustanziazione di Rilke fosse cominciata nel giardino di Worpswede dove, mentre si trattava ora questa ora quest’altra questione dell’arte, il poeta lentamente si trasmutava nel Poeta: «si parlava di Tolstoj, della morte, di Georges Rodembach e de La Festa della pace di Hauptmann; e di tante cose che vanno ben al di là dell’ora e di noi stessi». Nel reciproco conversare non erano più due amici a parlare ma due rappresentanti di un medesimo snodo dell’arte che dal simbolismo portava alle avanguardie.
Nonostante lo stretto legame che li univa, Rilke nel suo libro su Worpswede (1903) non fece cenno della pittrice. Il dialogo tra i due venne interrotto, poi ripreso e poi nuovamente interrotto. Risorse un’ultima volta nella commossa lirica Requiem per un’amica, che è come il pendant del ritratto della Modersohn-Becker: «Ho morti, e li ho lasciati andare/ e stupivo a vederli così in pace/ così presto accasati nella morte, così giusti,/ così diversi dalla loro fama. Solo tu torni/ indietro; mi sfiori, ti aggiri, vuoi/ cozzare in qualcosa che risuoni di te». Anche qui, come del dipinto, si sente l’eco di quel conversare, laggiù nel giardino di Worpswede, dove il giorno moriva mentre «si parlava di tante cose che vanno ben al di là dell’ora e di noi stessi».