Glenn Greenwald, il giornalista ex Guardian e autore degli articoli che hanno rivelato al mondo le tecniche di controllo della Nsa statunitense (National Security Agency), grazie ai documenti consegnati a Hong Kong da Edward Snowden, ex analista della Cia, ha presentato a Milano il suo nuovo libro Edward Snowden e la sorveglianza di massa (Rizzoli, euro 15).

Prima della presentazione alla Sala Buzzati della Fondazione del Corriere della Sera, lo abbiamo incontrato per una intervista sui temi salienti della sua «produzione». Lo scandalo Datagate ha rivelato infatti un complesso sistema di controllo in grado di violare la privacy di una persona. Le modalità e le conseguenze di come Snowden, Greenwald – e la documentarista Laura Poitras – hanno deciso di gestire l’intero scandalo ha finito per aprire scenari non solo sulla critica delle contemporanee forme di controllo, ma anche sull’attuale mondo dei media, sui compromessi tra giornali e governi, sull’indipendenza delle inchieste giornalistiche.

Con Greenwald partiamo dall’inizio, dalle fasi durante le quali si è reso conto chi fosse Snowden e del materiale che aveva sotto mano.

Nel libro racconti l’eccitazione alla visione dei primi documenti, al senso di vertigine e la percezione che tutto quanto sarebbe andato ben oltre quelle rivelazioni. Cosa sono diventate oggi quelle sensazioni?

Furono momenti molto esaltanti, ci rendemmo subito conto di aver di fronte materiali molto più importanti di quanto pensavamo. Eravamo sotto pressione, lavoravamo con ansia, avevamo capito che non sarebbe stata solo una storia giornalistica, ma che avrebbe investito temi molto più ampi, sociali, relativi alle tecniche di controllo, alla privacy.

Capimmo subito che avremmo dovuto muoverci con cautela, che saremmo stati bersagliati da critiche e che avremmo potuto avere problemi. Anche per questo capimmo subito che il profilo di altissimo livello di Snowden sarebbe stato decisivo nella ricezione da parte del pubblico di quegli articoli.

C’è qualcosa che faresti in modo diverso oggi? Nel libro racconti di come anche le comparsate televisive durante i giorni caldi dello scandalo, fossero concepite con una strategia precisa, quella di indirizzare la discussione nei binari a voi più congeniali. Ci siete riusciti?

C’è sempre qualcosa che una persona vorrebbe rifare, non siamo perfetti, riscriverei in modo diverso alcune cose, però credo che abbiamo retto l’urto e credo che la questione della privacy abbia finito per diventare centrale nel dibattito politico. Certo, alcuni errori li abbiamo fatti, credo che anche Snowden ne abbia fatti…

Ad esempio?

Credo che ci sia stato un errore tattico del padre, che recentemente lo ha spinto a partecipare alla conferenza stampa di Putin. Non credo sia stata una buona idea (Snowden è stato accusato di aver aiutato Putin nella sua propaganda circa la presunta trasparenza del governo russo, n.d.r.). Questa è stata una mossa che, per quanto Snowden abbia cercato di giustificare, è stata sbagliata.

A questo proposito, ieri gli avvocati di Snowden avrebbero detto di essere in trattative con il governo americano per un suo possibile ritorno negli Stati uniti…

Non credo che ci sia alcun margine di trattativa. Questi negoziati, come vengono chiamati, possono durare anche anni, ma di sicuro l’amministrazione Obama non ha altra intenzione che quella di fare tornare Snowden e metterlo in carcere come ogni persona che riveli i segreti dell’amministrazione.

Obama per altro non sembra intenzionato a riformare la Nsa, possiamo quindi immaginare che i sistemi di controllo proseguiranno come se niente fosse accaduto?

Controllare la popolazione, la tua e quella altrui, non è altro che esercizio di potere. E chi gestisce il potere ne vuole avere sempre di più, non certo di meno, quindi è normale che queste pratiche proseguiranno. La riforma proposta cambia poco, veramente poco. La verità è che questi sistemi di controllo sono basilari per il mantenimento del potere.

Nel tuo libro sostieni che le forme di controllo nascano dall’esigenza di tenere sotto scacco una società in cui le diseguaglianze economiche rischiano di produrre cambiamenti sociali. C’è quindi – secondo te – un’origine economico- sociale nelle strategie di controllo così diffuse?

Più aumenta la diseguaglianza economica, più la crisi colpisce, più le persone protestano, creando problemi a chi detiene il potere. Abbiamo visto ovunque questi fenomeni, sia nel mondo cosiddetto sviluppato, sia in quello considerato più in difficoltà. Le forme di controllo servono a sorvegliare (e punire, proprio come sostiene Michel Foucault) gli elementi «cattivi» della società, all’interno di una divisione tra «buoni» e «cattivi» che crea la legittimazione alle forme di controllo.

Cosa pensi della net neutrality?

Sono a favore di qualsiasi cosa che permetta a Internet di essere uguale per tutti e libera. Ormai la Rete è il mondo attraverso il quale ci formiamo le opinioni, dialoghiamo e riveliamo il nostro pensiero. È necessario che sia uguale per tutti. Non può diventare un posto dove dominano i governi e le multinazionali e il concetto di net neutrality è la chiave perché questo non avvenga.

In che modo sono cambiati, se sono cambiati, i media mainstream dopo le rivelazioni di Snowden e il vostro lavoro di pubblicazione dei dati raccolti?

Il nostro obiettivo non era solo quello di pubblicare articoli e rivelazioni. Il nostro obiettivo era dare vita ad un dibattito, non solo sulla sorveglianza, ma sul giornalismo. In particolare a noi interessava sottolineare perché Snowden non si era rivolto ai grandi giornali, dove di solito finiscono questo tipo di storie. Lui stesso non voleva alcuna intermediazione con il governo, non voleva un media che provasse a mediare, finendo poi per insabbiare o bloccare tutto.

Noi volevamo proprio creare questo dibattito, su quanto i media americani – specie dopo l’11 settembre – fossero diventati deboli rispetto la critica al potere.

Che pensi dell’acquisto di Jeff Bezos (proprietario di Amazon, ndr) del «Washington Post»?

Sapere che una persona con una marea di soldi si interessa al mondo dei media potrebbe essere un’ottima notizia per un’industria che sta morendo. Bisogna capire quanto voglia fare gli interessi del giornale e della stampa in generale o quanto quelli della sua azienda, Amazon.

Qual è la differenza tra il tuo progetto, «The Intercept», e i media mainstream tradizionali?

Il principio centrale è il giornalismo indipendente. Nessuno può e deve dire a un giornalista cosa può o cosa non può fare. Il problema è che di solito nei posti dove puoi fare vero giornalismo, non ci sono le risorse per reggere grandi progetti di investigazione. Abbiamo provato a creare qualcosa di intermedio: giornalismo indipendente e fondi che permettano di pagare persone, avvocati e tutto quanto serve per tutelare le inchieste, chi le fa e le fonti.

Però anche «The Intercept», è finanziato da un tycoon, Omidyar. Tra l’altro recentemente si è scoperto che Omidyar ha finanziato alcune ong in Ucraina, che hanno preso soldi anche da organizzazioni diretta emanazione del Congresso americano e in particolare dei neocon. Come ti poni di fronte a questa ambiguità e in che modo gestirai la relazione con lui?

Siamo stati molto chiari, se ci dovesse essere una qualsiasi interferenza nel nostro lavoro i patti sono espliciti, ce ne andremmo via subito; su questo c’è stata estrema chiarezza e credo lo sappia bene anche lui. Il nostro team aveva prima buone posizioni e le avremo anche dopo, nel caso dovessimo interrompere la nostra avventura.

So che ne hai già ampiamente parlato, mi puoi specificare in due parole la differenza tra i vostri metodi e quelli di Wikileaks?

Intanto io ho grande stima di Wikileaks, sono stato un loro sostenitore fin da subito e continuo a sostenerli. La nostra differenza è nella gestione di informazioni di un certo tipo, loro sono per la massima trasparenza, noi ci muoviamo cercando di tutelare il più possibile chi potrebbe avere dei danni dalle rivelazioni. Siamo stati molto attenti a questo aspetto fin da subito, per rispondere a molte delle critiche che ci sarebbero potute piovere addosso.

Cina contro Usa, cosa ne pensi di queste accuse tra Washington e Pechino sullo spionaggio informatico?

Per tanti anni gli Stati uniti hanno sostenuto che la Cina spiasse la popolazione americana, attraverso i suoi prodotti tecnologici. Per questo ha sempre boicottato i prodotti tecnologici cinesi, salvo poi scoprire che ne aveva bisogno per spiare i propri cittadini. E’ la forza ipocrita e mondiale degli Stati uniti…di accusare gli altri di fare quanto Washington fa.

Se dovessi avere un’altra straordinaria rivelazione…

Che ho…

A proposito di?

Non posso dirlo…

Quando lo sapremo?

Tra poco…

Se dovessi, dicevo, avere un’altra straordinaria rivelazione da pubblicare, ti affideresti nuovamente a media mainstream e o pubblicheresti tutto su «The Intercept»?

Non mi affiderei più ai media tradizionali, ormai la strada intrapresa è questa. Sicuramente di fronte a questioni che dovessero riguardare singoli paesi, potrei cooperare con media nazionali di quel paese.