Tre ore o quasi chiuso in camera con Giorgio Napolitano. Poi un tweet, «Arrivo». Invece ci vuole ancora una mezz’ora buona. Poi Matteo Renzi, felice come un bambino in pasticceria, può presentare il suo governo, che giurerà stamattina e chiederà la fiducia lunedì. Se il premier scioglie la riserva, il capo dello Stato concede la sua benedizione con tutte le riserve del caso. «E’ il presidente incaricato a proporre i ministri, e questa prerogativa è stata rispettata», sottolinea. Lo fa per parare l’accusa di aver messo becco nella formazione del governo. Però lo fa anche per chiarire che questo è tutto e solo il governo di Renzi. Suo il trionfo se andrà bene. Sua la responsabilità se stenterà a marciare.

Come squadra, a conti fatti, è abbastanza deludente. Renzi salva le apparenze ma sacrifica la sostanza. Dopo una maratona proseguita per tutta la giornata può vantare una squadra di appena 16 ministri, «solo il terzo governo De Gasperi aveva fatto di meglio, ma non è una gara e non voglio cerco paragonarmi». Metà squadra è al femminile, e il nuovo presidente del consiglio lo rimarca quanto più possibile. E ci sono tanti giovani, età media 47 anni, segno di speranza per la generazione più disperata.

La rappresentanza della società civile è esile. Federica Guidi, Confidustria, allo Sviluppo e Giuliano Poletto, Coop, al Lavoro. La rappresentanza del Pd è invece foltissima, con tanto di ministero degli Affari regionali assegnato a sorpresa a una civatiana, Maria Carmela Lanzetta. E’ lecito sospettare che un pensierino ai potenziali voti in dissenso dei civatiani ci sia entrato qualcosa. Di certo c’è entrata parecchio una sorta di Cencelli interno al partito: un ministero ai Giovani turchi (Orlando alla Giustizia), uno ai bersaniani (Poletto al Lavoro), uno a Franceschini e uno ai franceschiniani (Mogherini agli Esteri). Di renziani doc, oltre a Graziano Delrio, ci sono Maria Elena Boschi, Riforme e Rapporti con il parlamento, e Marianna Madia, una sorpresa per tutti, alla Pubblica amministrazione e semplificazione.

Sin qui le apparenze, che certo contano parecchio. Nella sostanza il bilancio è meno roseo. L’incontro notturno tra Renzi e Alfano si è concluso con una vittoria dei «diversamente berlusconiani». Renzi batte i pugni sul tavolo e impone che Angelino scelga tra la carica di vicepremier e la conservazione del Viminale. Come se fosse possibile avere dubbi. Nel corso della mattinata gli eterni ragazzi dell’Ncd strepitano, ma solo per blindare l’accordo. E’ lo stesso Alfano a sedarli: «Mai chiesto il doppio incarico». In realtà gli è andata di lusso: hanno mantenuto tutti e tre i loro pesantissimi ministeri. Resta al suo posto anche Maurizio Lupi, che Renzi sognava di sloggiare per liberare Expo 2015 dall’ipoteca di Cl. Nessuno sostituisce Alfano al vicepremierato, così anche quella peraltro lieve ferita viene per metà sanata. Persino sul fronte delle riforme qualche apertura gli ex azzurri la strappano. La legge elettorale rischia il congelamento fino all’eliminazione del Senato. Storia lunga.

Il premier si è rifatto con gli altri partitini. Sc deve accontentarsi della Pubblica istruzione per Stefania Giannini. I capigruppo Romano e Susta speravano in qualcosa di più ed escono dal Nazareno scuri. L’Udc incassa l’Ambiente per Gianluca Galletti. I Popolari di Mauro Mauro restano a bocca asciutta. Il leader contava di tenersi il ministero della Difesa, e quando si appalesa che dovrà lasciare il posto a Roberta Pinotti, Pd, a qualcuno dei suoi saltano i nervi e arriva a minacciare la sfiducia. Poi il capogruppo Dellai corre ai ripari e assicura che non ci sarà problema. Del resto ci sono ancora da definire i sottosegretariati.

Non è che sia finita benissimo neppure la trattativa con Napolitano, che il presidente naturalmente esclude tassativamente («Non c’è stato nessun braccio di ferro» e se il colloquio è durato tanto è perché il presidente sbrigava le sue faccende mentre il premier limava la squadra. Una barzelletta). In realtà due dei nomi previsti dal baby-premier non incontravano il gradimento dell’anziano presidente. Uno, quello di Nicola Gratteri, troppo rigido, è stato depennato a favore di Orlando. Sull’altro, Federica Mogherini agli Esteri, Renzi l’ha invece spuntata. Napolitano avrebbe preferito mantenere Emma Bonino, in nome della continuità. Ma il futuro premier non voleva una ministra così autonoma e del tutto incontrollabile da palazzo Chigi. Sarà certamente più disciplinata la giovane Pd che vanta uno stage negli Usa ed è tanto amica della moglie di Kerry.

La partita dell’Economia si era chiusa prima ancora che Renzi varcasse la soglia della reggia. Padoan era partito in tutta fretta da Sydney, annunciando che correva a fare il ministro dell’Economia. Di tutti i candidati sui quali ha puntato in questi giorni Renzi, è quello che più si avvicina all’identikit preferito sul Colle. Non è Saccomanni, è vero, ma non è neppure Delrio, tornato nella casella originaria di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Con questa squadra, Matteo Renzi gioca la partita chiave della sua vita politica. Un bell’azzardo.