“Grande angolo per uomini, manifesti e paesaggi” non è una tela e non è una pellicola. È uno
sguardo di Mario Schifano su un’epoca e sul mondo.
Scritto attorno al 1969 in un clima di forte contestazione e di impegno politico, “Grande
angolo” è un trattamento che si riteneva perso e che è invece stato ritrovato di recente.
È una “storia di storie” in ventisette scene. Un unico, grande affresco, fatto d’intuizioni, lampi
e sprazzi degli accadimenti politici di allora alternati a vicende umane, raccontato da un
autore tra i più significati della ricerca cinematografica sperimentale della seconda metà del
Novecento.
Il racconto ha inizio con il trionfalistico resoconto televisivo dell’allunaggio, vissuto
nell’indifferenza e nel silenzio di un paesino sperduto, regolato dalla vita di un tempo.
Prosegue con altri “segmenti” di storie, da una strage di lavoratori e studenti in un’azione
poliziesca raccontata dai media come una vittoria della società, alla repressione del padronato
in una fabbrica di automobili in sciopero. E poi con la vicenda di un pilota americano che
ruba un aereo da una base in Italia per tornare a casa con un volo “suicida” che sa che finirà
tragicamente in mare per la mancanza di carburante. Infine l’episodio di un ragazzino della
Sila che si ribella all’autorità dei genitori e del maestro per unirsi “da comunista” ai braccianti
in lotta.
Doveva diventare il film più politico dell’artista, infinitamente più politico dei suoi stessi
quadri più politici. Un film con una narrazione frammentata quasi antinarrativa. Un
“multistoria” ma senza una vera storia o un filo unitario. In realtà era film che nasceva da una
profonda volontà di sperimentare.
Schifano era arrivato al cinema dopo un percorso lungo e complesso. Era un artista sempre
assetato d’immagini. Una sete che aveva fin da bambino, quando rimasero impresse per sempre
nel suo animo le immagini del paesaggio della Libia dove era nato: sbiancato e punteggiato dalle
palme. E anche l’immagine di un misterioso sommergibile che vide emergere dalle acque del
Mediterraneo. Era amico e nemico? Questo interrogativo gli vagò insoluto per sempre nella mente.
A sette anni fuggì con la famiglia dalla guerra dell’Africa orientale e arrivato a Roma incontrò il
cinema. Ma non quello che aveva mitizzato, dei grandi schermi, del sogno, della fantasia. Nei teatri
di posa di Cinecittà, dove si era rifugiato con la famiglia, il ragazzino vide solo la fame, la paura dei
bombardamenti, gli stenti della vita degli sfollati.
Nel dopoguerra, dopo tanti lavoretti saltuari, da quello di decoratore di torte per un pasticciere
a quello di restauratore al Museo Etrusco, approda alla fine degli anni ’50 all’arte con i primi
“monocromi”. “Lo strumento che veicolò l’idea del monocromo, del “non quadro”, fu una
macchina fotografica…”, ricordava lo scultore Giuseppe Uncini. “Era una Rolleiflex… Le
immagini che si vedevano con il visore reflex erano magiche…Fu da quella visione, dalla forma
dello schermo, che venne fuori il monocromo”.
L’idea di vedere la realtà filtrata da un mezzo tecnologico, una sorta di prolungamento dell’occhio
dell’artista, da quel momento sarà una costante nella ricerca artistica di Schifano.
Una macchina fotografica non gli consentiva però di documentare il tempo, ma solo lo spazio.
Schifano capì che solo con la pellicola poteva impadronirsi anche del tempo e del mondo, quello
delle immagini liberate dalla fissità di un mezzo.
La sua esigenza era talmente forte e inarrestabile che il suo primo filmato nacque da un “esproprio”.
Prese una cinepresa, una Bauer 8 mm, alla sua gallerista, Ileana Sonnabend, e filmò da Rosati in
piazza del Popolo gli amici: Mimmo Rotella, Giosetta Fioroni, Franco Angeli, Moravia, Sandro
Penna, Tano Festa.
Tutti in quel momento pensano che con l’arte e la cultura si possa cambiare il mondo. E Schifano
vuole essere in prima fila per afferrare il mondo nelle sue mani.
Alla fine del 1963 Schifano decide di lasciare Roma. Il 4 dicembre, mentre si imbarca per New
York con la fidanzata, la modella e attrice Anita Pallenberg, sulla nave “Cristoforo Colombo”
sa che la sua vita cambierà per sempre. Nella nuova capitale dell’arte, Schifano conosce artisti,
intellettuali e vive immerso nella scena artistica nuovayorkese quasi da semiclandestino.
“Andavano al “Five spot” a vedere i film di Andy Warhol con le scarpe da ginnastica perché
dovevamo correre per scappare dalla polizia…” ricorda la Pallenberg.
È un periodo stimolante, ma molto difficile. L’artista prova per la prima volta una sorta di
emarginazione artistica. Non vende un quadro, forse a causa dei dissapori con Ileana Sonnabend
o, più probabilmente, per il crescente sciovinismo contro gli europei nella nuova capitale dell’arte.
Nelle rare lettere agli amici rimasti in Italia trancia giudizi severi su alcuni artisti del Pop art, ma al
contempo inizia un intenso rapporto di collaborazione e di profonda amicizia con il celebre poeta
Frank O’Hara, amico e cantore di Jackson Pollock e degli altri artisti dell’”Action painting”.
In quel periodo Schifano gira i primi film indipendenti: in “Round trip” racconta un viaggio con
Tano Festa dall’opulenta America al Messico diseredato e in “Reflex”, una pellicola girata nello
studio del fotografo di moda Bob Richardson, cerca di cogliere, attraverso lo strumento fotografico,
l’”impercettibile” ad occhio nudo, anticipando alla sua maniera il tema di Blow-up di Antonioni,
che uscirà nelle sala un paio di anni dopo.
Mentre nei suoi film sperimentali l’amico Andy Warhol ha un approccio distaccato, con immagini
statiche fino allo sfinimento, Schifano lavora per accumulo, per stratificazione, di suoni,
d’immagini, di segni, con inquadrature in eterno movimento, inclinate, instabili, capovolte. Per
Schifano non ci sono primi piani, campi, controcampi. Ha le inquadrature in testa. Afferra la
cinepresa e gira. Senza mai provare nulla prima.
Nell’estate del 1964 viene invitato ad esporre una serie di opere alla Biennale di Venezia
nell’edizione che consacra la Pop art e il predominio dell’impero americano nell’arte, ma l’artista
non si presenta all’inaugurazione.
Quando ritorna Roma è una star che gira con una MG spider, che si fidanza con donne bellissime
e famose. Come Warhol con i “Velvet Undeground, anche Schifano fonda un gruppo pop-rock,
“Le stelle di Mario Schifano”. Cresce il suo naturale interesse alla ricerca. Sperimenta cambiamenti
nella comunicazione visiva, attraverso un’estetica multimedia, servendosi simultaneamente di
cineprese, macchine fotografiche e del mezzo televisivo.
Nella capitale, democristiana, papalina, bigotta, il suo muoversi fuori dagli schemi attira
l’attenzione della polizia. Arrestato per la prima volta per uso di droga, viene difeso dal celebre
penalista Adolfo Gatti, che in tribunale invoca leggi diverse dai codici italiani per valutare
il comportamento di un artista: “Come si fa a dare un giudizio morale su un artista come
Schifano…?” domanda il celebre avvocato ad un attonito giudice.
Nel ’66 ritorna a pensare soprattutto al cinema. Incontra un film makerpiemontese, Franco Brocani
teorico del cinema d’avanguardia e di ricerca con il quale collaborerà intensamente per diversi
anni. In quel periodo è attratto dal genio creativo di Jean Luc Godard. E Schifano fa subito sua
una massima del regista francese: ”Non esistono diritti d’autore ma solo doveri d’artista”. L’anno
dopo realizza “Jean-Luc ciné”, un breve ritratto di Godard al quale seguirà un secondo sull’amico
regista Marco Ferreri. Sempre nel 1967, intuendo l’anomalia del primo conflitto raccontato giorno
per giorno in televisione, con Marco Ferreri e Ettore Rosboch realizza “Vietnam”, un film di
montaggio.
Da quel momento anche televisione, con al sua realtà virtuale, entra a pieno titolo tra gli strumenti
dell’artista multimediale. “Sono una specie di alchimista. La televisione non colpisce la mia
fantasia, ma il mio occhio. Anzi è un occhio artificiale che mi permette di vedere meglio come sono
gli uomini. È uno strumento che loro stessi hanno creato per raccontarsi…” afferma Schifano in una
delle sue rare interviste.
Sempre in quel periodo gira “Anna Carini vista in agosto dalle farfalle” utilizzando un particolare
obiettivo “munito di lenti prismatiche le quali conferiscono un effetto di moltiplicazione
dell’immagine, simulando il modo di vedere degli insetti.”
Ha un lungo flirt con l’ex fidanzata di Mike Jagger, l’attrice e cantante Marianne Faithfull. Lavora a
cortometraggi con l’attore William Berger, con sua moglie Carol, con Renato Salvatori, con Annie
Girardot, con Keith Richard dei Rolling Stones, ma anche con Gerard Malanga della Factory di
Andy Warhol che in un corto di Schifano simula di drogarsi davanti ai turisti in visita al Vaticano.
Nel dicembre del ’67, sempre più interessato alla musica e alla multimedialità, mette in scena al
Piper di Roma “Grande Angolo, sogni, stelle”, il suo primo show con musica, film e diapositive. La
rappresentazione ha un grande successo e batte negli incassi gruppi famosi come i Procol Harum.
Quando l’anno dopo esplode la contestazione studentesca, l’interesse dell’artista per la pittura
sembra vacillare. Ritiene che abbia perso la sua funzione sociale e vorrebbe fare solo film.
Appassionato a qualsiasi invenzione innovativa nel campo dell’immagine o del suono, si fa spiegare
da Anthony Foutz il procedimento tecnico usato per “2001” dello slit-scan dove fasci di luce e di
colore scorrono veloci inghiottiti da un punto immaginario. Vuole anche sapere tutto del primo
sintetizzatore, il Moog, che verrà poi usato nel suo film “Umano non Umano” con Keith Richard al
pannello di controllo.
Dopo le sperimentazioni e i film indipendenti, alla fine del 1968 Schifano chiede a Gianni
Barcelloni, il produttore di film di Carmelo Bene, Jean Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Glauber
Rocha, di finanziargli il suo primo lungometraggio, un film “politico” ispirato al lavoro di Godard.
Barcelloni si dimostra interessato, ma chiede all’artista di scrivere prima un copione. Una cosa che
Schifano non ha mai fatto per i suoi film precedenti.
“Ah sì, hai ragione, poi a me piace scrivere…” risponde l’artista al produttore che gli versa 6
milioni di anticipo. Schifano parte per Cortina d’Ampezzo. Torna dopo due mesi con il trattamento
di “Grandangolo per uomini, manifesti e paesaggi”.
Nel frontespizio l’artista propone un cast importante e variegato. Al suo attore preferito, Ugo
Tognazzi, che Schifano vede come molto “umano”, aggiunge una serie di nomi con una certa
influenza godardiana. Cristiana Tullio-Altan aveva lavorava in “Vento dell’Est”, Anne Wiazemsky
era stata interprete di molti suoi film, come “La Chinoise” ed era la moglie di Godard: Jean Pierre
Leaud, l’icona di François Truffaut, era stato usato dal regista francese proprio in quel momento.
E c’era e anche Anita Pallenberg, compagna dell’artista nel suo periodo nuovayorchese, che aveva
lavorato con Godard in One plus one (1968). Invece appartenevano al versante dell’artista, oltre al
il già citato Ugo Tognazzi, Gian Maria Volontè, Lou Castel, Renato Salvadori, lo scrittore Goffredo
Parise, Viva (una delle muse di Andy Warhol), la canadese Alexandra Stewart e, nella parte del
pilota americano, John Philip Law, che era stato l’angelo di Barbarella nel film di Roger Vadim
dell’anno prima.
Il film non si fece per ragioni che il produttore non ricorda e che Schifano non ha mai detto. Ma
cosa voleva raccontare Mario Schifano con questo suo primo trattamento?
Il “grandangolo” è un obiettivo che rende un’immagine deformata, ma contemporaneamente
abbraccia tutto il visibile circostante. Ma è anche un “grande angolo”, un punto di vista che
permette “in senso letterale e metaforico” una visione ampia, per quanto “insoluta”, come l’artista
aveva detto in un’intervista proprio con Goffredo Parise.
A cavallo di questo primo film “scritto ma non filmato” Mario Schifano realizzò la trilogia dei suoi
film sperimentali più conosciuti: “Satellite”, sulla morte della cultura occidentale risucchiata nel
caos del vivere moderno; “Umano non umano”, dove è il cinema a morire per mano di un bambino
che recide lo schermo; “Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani” un film dove Schifano
mette lo spettatore di fronte alla sua morte, alla morte dell’uomo.
Nel 1970 Schifano scriverà, insieme a Tonino Guerra, la sua seconda sceneggiatura per un film
che Carlo Ponti voleva produrre. Dopo lunghi sopralluoghi negli Stati Uniti, accompagnato dalla
giovane aristocratica Nancy Ruspoli, Schifano decise di non fare anche questo secondo film basato
su una sceneggiatura. “Oltre al contratto per quel film, Ponti mi aveva fatto l’opzione per altri due
film. Ma io già cominciavo a stufarmi del cinema” raccontò Schifano in una intervista.
L’artista “assettato d’immagini” tornò ad essere, come scrisse Bonito Oliva, “..una macchina
da pittura, aderente ad essa, senza possibilità di distacco”. Ma continuò a lavorare in uno studio
con decine di televisori accessi, immerso nello scorrimento continuo d’immagini, fotografando
incessantemente la sua “musa ispiratrice”, nell’intento di riumanizzare le immagini disumane dello
schermo, in una continua guerra, in sorta di rivincita dell’”umano” sul “non umano”.
“Ho cercato di esprimermi con la pittura poi, non bastandomi solo questa, col cinema, perché mi
pareva che la pittura rimanesse limitata solo da una cosa, l’immagine, mentre il cinema ne contiene
in sé tante altre, il gesto, il movimento, appunto la parola…” disse nel 1974 in una intervista a
Moravia. E in un’altra occasione aggiunse: “Le cineprese sono cose che mi sono sempre servite a
riprodurre degli spazi e delle figure con le quali poter restare anche quando ero solo.