Per Robert Guédiguian è un colore, il rosso. Con il quale ben si dipinge il temperamento d’attrice di Ariane Ascaride, interprete irrinunciabile dei film diretti dal suo compagno. Ascaride e Guédiguian, Ascaride e Marsiglia. E, ora, l’Italia, la Puglia, Bari, dove l’attrice francese è protagonista di una storia d’amore tra una donna matura e un giovane arabo (Helmi Dridi) che ha la metà dei suoi anni. Si sono appena concluse le riprese di  L’amore non perdona di Stefano Consiglio, coproduzione tra l’italiana BiBi Film e la francese Babe Films, realizzata con il sostegno di Apulia Film Commission.

Dopo aver accettato il ruolo per il film di Stefano Consiglio, ha affermato che girare in Italia era un sogno che si realizzava ma, allo stesso tempo, anche la più grande paura della sua vita. Possibile?

“Era un sogno per me perché sono di origini italiane. Poi l’Italia ha cominciato a toccare ancora di più il mio cuore quando, nel 2006, ho ricevuto un premio al Festival di Roma (migliore interprete femminile per Le Voyage en Arménie – Armenia di Guédiguian, ndr), ma non tanto per il premio in sé, piuttosto perché mi sembrava che l’Italia mi dicesse: Buongiorno, benvenuta!. Poi quando Stefano mi ha chiamato, la prima cosa che gli ho chiesto è perché avesse pensato proprio a me, visto che di brave attrici nel vostro Paese ce ne sono diverse. Lui però voleva me. Ho detto sì, ma subito dopo ho iniziato ad avere una paura tremenda, mi sono sentita come una pianista a cui veniva chiesto di suonare il violino, perché parlare in italiano è una cosa, recitare è un’altra. I primi giorni sono stati più difficili, poi le cose sono migliorate molto, in questo film tra l’altro recito sia in italiano che in francese. La prossima volta, se ci sarà, magari lo farò soltanto in italiano”.

Che donna racconta, L’amore non perdona?

“Quello di Stefano Consiglio è uno sguardo molto umano su una donna non più giovanissima, che attraversa un’età spesso difficile, in cui si ha paura di non piacere più agli uomini. Il mio personaggio ha una storia con un ragazzo straniero, ma è un film sull’immigrazione, piuttosto sul legame tra due persone un po’ ai margini, per ragioni diverse. Lei farà molta difficoltà a capire che lui le piace veramente, e questo è un aspetto che mi interessava tantissimo. Peraltro, lavorare fuori dalla Francia mi ha fatto sentire anche più libera. E’ stata una sorpresa per me”.

Ha praticamente recitato in tutti i film del suo compagno, Robert Guédiguian. A vedere questi film in sequenza, colpisce il mutare e l’evolversi del corpo degli attori: lei, Gérard Meylan e Jean-Pierre Darroussin, i prediletti della filmografia del regista. Che effetto le fa?

“Molto strano, perché il lavoro che facciamo con Robert racconta anche il tempo che passa sulla nostra vita. Abbiamo cominciato che eravamo tutti molto giovani e, adesso, abbiamo cinquant’anni passati. Quando penso a questi film, quando li rivedo è come se riavvolgessi la mia vita perché ho la fortuna, o la sfortuna, di vedere gli anni passare su di me, su Gérard e su Jean-Pierre. Credo che tutto quello che fa Robert sia una sorta di diario, in cui racconta i suoi pensieri, il suo punto di vista politico e più in generale qualsiasi cosa sia importante per lui. Spero che continueremo a fare altri film, tutti insieme, fino a cent’anni. Intanto, a maggio, abbiamo realizzato Le Fil d’Ariane, un film di fantasia, sui toni del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Contiene elementi pazzeschi, bellissimi e, fra le altre cose, c’è anche una tartaruga parlante. Mi ha fatto un regalo”.

Oltre agli attori, Guédiguian fa riferimento anche gli stessi luoghi: il bar, il mare, Marsiglia…

“Čechov diceva: «Se vuoi parlare dell’universo, parla del tuo paese». Ecco, io la penso esattamente come lui, perché ritengo che quando lavori sulla particolarità di un luogo, sui personaggi che sono in fondo sempre gli stessi, che ritornano, attraversati dalla vita, tu riesci a parlare del mondo. Quando vedo un film di Ozu mi commuovo, mi ritrovo in quello che esprime, in quello che gli interessa, ho la bellissima sensazione che lui, in quel momento, stia parlando di me”.

Marius et Jeannette, dopo anni e tanti film, che momento è stato?

“Fino ad allora nessuno ci conosceva, ma in un’ora e mezza è cambiato tutto, è stato stranissimo. E credo che sia andata così perché Marius et Jeannette è qualcosa di assai particolare, è uno stato di grazia. Quando lo abbiamo girato, eravamo in un piccolo posto, tra noi, senza soldi, in pochi giorni.  Ricordo che c’erano i giochi olimpici in quel periodo e, tra una pausa e l’altra, andavamo a vedere la tv. C’era un qualcosa di molto bello nell’aria che non saprei descrivere esattamente. Era un piacere farlo. All’inizio era stato pensato per la televisione e, all’improvviso, ci siamo ritrovati a Cannes. Abbiamo presentato il film prima della proiezione, siamo usciti dalla sala e stavamo in un bar ad aspettarne la fine, quando gli organizzatori del festival ci hanno chiesto di tornare in sala immediatamente. Allora, ci siamo ritrovati tutto il pubblico in piedi che gridava, piangeva, rideva: una cosa che non credo mi succederà più. Marius et Jeannette. ci ha aperto tante porte, abbiamo praticamente fatto il giro del mondo”.

Com’è, invece, essere diretta da altri registi?

“Una volta lavorare con altri era molto più difficile, perché Robert non ritiene che gli attori abbiano bisogno di ricevere istruzioni o direzioni, lui pensa che siano autori, dunque non parla quasi mai sul set. Quando mi è capitato, poi, di lavorare con registi che, al contrario, dicevano continuamente cose del tipo: «metti la mano là, fai così, non fare così…» per me è stato molto strano, perché io non ho bisogno di questo, io non devo semplicemente “eseguire”, devo lavorare “insieme” al regista. La nostra deve essere una vera collaborazione. Con il tempo, con l’esperienza, ho trovato dei trucchetti che mi consentono di rapportarmi meglio con certi registi troppo rigidi ed è una cosa che mi piace tantissimo fare. E’come un gioco per riuscire a portare qualcosa di me, quasi segretamente, dentro quello che il regista si aspetta. Penso anch’io che la recitazione sia creazione, non mi interessa il virtuosismo, è fin troppo semplice. Da attrice mi affascina essere sempre sopra un filo, sentirmi un’equilibrista”.

Cosa apprezza di più del cinema francese, oggi?

“Il fatto che ci siano molte registe in Francia, che raccontano storie che puoi guardare da angolazioni diverse. Sono riuscite a cambiare anche la visione dei registi, il loro sguardo sulle donne”.

Che spettatrice è, invece? Cosa le piace e cosa non le piace?

“Io guardo di tutto, veramente di tutto. Adoro essere spettatrice, entrare in una sala e guardare. Certo, le operazioni prettamente commerciali mi interessano poco, ma apprezzo tantissimo, ad esempio, il cinema indipendente americano e molti vecchi film statunitensi, francesi, italiani. Cerco di seguire anche il cinema contemporaneo, per rintracciare nuove impressioni del mondo”.

E qual è il suo film preferito da spettatrice?

“La vita è meravigliosa di Frank Capra, e potrei vederlo ogni giorno, ad ogni ora. È il mio film prediletto per la voglia che mi dà di vivere, ti racconta che ogni persona è importante: se tu non ci sei, tutto il mondo cambia. Mi viene in mente anche C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, film importante per me come può esserlo il film francese che amo di più, La grande illusion di Jean Renoir. Inoltre adoro i film di Pasolini, specialmente Accattone e Il vangelo secondo Matteo. Più cresco e più Pasolini mi aiuta”.