Se la vendetta si consuma a freddo, i disco maniaci della prima ora ormai decisamente un po’ ageé, la loro rivincita «sul tempo» l’hanno ottenuta per mezzo dei Daft Punk. I parigini Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter dal casco dorato si sono portati a casa i due principali premi alla cerimonia di consegna dei Grammy Award con l’album Random access memories (puro tributo ai 70), il singolo Get Lucky, con l’aggiunta di altre due piccoli grammofoni ottenuti nella categoria «miglior duo» e «miglior album dance». E così la celebrazione dei ritmi con la cassa in 4/4, – omaggiata anche nella colonna sonora di American Hustle, in odore di Oscar tanto per chiudere il cerchio, è diventata anche occasione di rivalutazione di uno stile musicale e di un’epoca, spesso relegata a fenomeno puramente commerciale.

Il loro pastiche tra vecchio e nuovo con la collaborazione di vecchie volpi del genere, come Moroder e Rodgers, è stata celebrata sul palco dello Staples Center di Los Angeles, in un set dove il duo nascosto dai costumi da robot ha suonato in compagnia di Nile Rodgers, Pharrell e, Stevie Wonder, l’hit Get lucky inframmezzato con classici degli Chic e del soul man.

Giovanissima è invece la rivelazione Lorde, diciassette anni dalla Nuova Zelanda, presenza scenica, capacità compositiva di livello (c’è chi si è spinto a paragonarla a una precoce Kate Bush…) che si è portata a casa il titolo di canzone dell’ anno grazie a Royals – un tripudio di ritmi, suoni e armonizzazioni vocali che ha funzionato molto bene anche in Italia – e un Grammy per miglior pop solo performance.

Ma la vera sorpresa – su Daft Punk e Lorde vaticinavano in molti – è stata l’affermazione di un altro duo, ibrido hip hop, soul e e pop che risponde al nome di Macklemore & Ryan Hewis – quattro premi tra cui quello come «best rap album». Vittoria festeggiata sulle note di Same Love dedicata all’amore in tutte le sue accezioni, nessuna esclusa. Quattro minuti quattro durante i quali sono riusciti a infilare le apparizioni di Trombone Shorty, Mary Lambertin, Queen Latifah e una Madonna di bianco vestita con cappello di cowboy (resuscitato il look 2000 di Music) che ha intonato due versi della sua Open your heart.

Fra pop, vintage e hip hop, a pagare lo scotto è il rock che ha avuto in questa sessantaseiesima edizione un ruolo più marginale, preferendo celebrare il suo mito a dispetto del presente. E questo la dice lunga sullo stato di salute del genere, come dimostra il premio andato ai Led Zeppelin, disciolti da tempo immemore, «best rock album» per Celebration, ai Black Sabbath riformati invece da poco (miglior performance metal per God is dead). Un premio anche per la curiosa relazione «pericolosa» tra Paul McCartney e Dave Grohl autori di Cut me some slack, e proprio l’ex baronetto insieme a Ringo Starr ha dato vita forse al momento più atteso della serata, con una sgambettante Yoko Ono (80 anni) a ballare in platea su Queenie Eye. Ma il live meno convenzionale, è stato proposto da Nine Ich Nails e Queens of the Stone Age, Dave Grohl e Lindsay Buckingman.

A leccarsi le ferite – nemmeno nominate a novembre, Lady Gaga e Miley Cirus, mentre Rihanna e Jay Z hanno dovuto accontentarsi di premi minori.