All’ora di pranzo la strada di Enrico Letta sembra tutta in discesa. Dopo due ore di colloquio col capo dello stato il presidente incaricato fa filtrare la buona novella: il giorno buono per sciogliere la riserva sarà domani, e a ruota giuramento dei ministri in modo da potersi presentare alle camere lunedì.

In serata, per dirla con un dirigente del Pdl «è tutto per aria» e la trattativa risulta «appesa a un filo sottilissimo». La nascita del governo, in realtà, non è in discussione, ma il braccio di ferro chiarisce in anticipo con quale spirito guerrigliero il Pdl entra in un esecutivo vissuto comunque come l’anticamera delle prossime elezioni.

Era stato Silvio Berlusconi, in mattinata, a sbloccare la situazione, spargendo massicce dosi di ottimismo («Il governo si farà») e soprattutto eliminando la più ostica tra le condizioni sul fronte del programma: la restituzione dell’Imu.

In realtà anche la cancellazione totale della tassa sulla casa non è assodata. I montiani puntano i piedi: diminuire, anche drasticamente sì, eliminare no. Nel Pd Francesco Boccia confida a twitter che per i redditi alti la tassa va mantenuta: «È ora di aiutare chi è rimasto indietro». Meglio tardi che mai. Ma sul fronte dell’economia Enrico Letta è apparso più che possibilista, e da questo punto di vista il semaforo verde del Pdl pare ormai acquisito. La musica cambia quando dal programma si passa alla composizione del governo.

Atterrato a Roma, Berlusconi convoca a pranzo a palazzo Grazioli lo stato maggiore, la colomba Letta, il falco Verdini, i capigruppo. Dovrebbe essere una specie di briefing per fare il punto sulla situazione. Ma all’imbrunire sono ancora lì e più passano le ore più il marasma cresce. Sullo sfondo campeggia lo scontro tra chi vorrebbe far saltare il tavolo subito, perché ritiene che condizioni tanto favorevoli per razziare un trionfo elettorale non si ripeteranno, e chi invece scommette sul governo e sul Berlusconi «uomo di stato».

A Montecitorio l’ennesimo incontro tra Letta e Alfano termina senza una sola dichiarazione. Capire qual è davvero l’oggetto del contendere non è facile. Di certo c’è solo che lo scontro non riguarda più il programma ma solo ed esclusivamente nomi e poltrone. Succede sempre alla vigilia della formazione di un governo di coalizione, figurarsi se a coalizzarsi devono essere i nemici di ieri e di domani. Solo che qui non si tratta, come al solito, di allocare i propri esponenti sulle poltrone o di bilanciare il peso dei soci contraenti. I nomi dei ministri saranno l’immagine pubblica e il dna di un esecutivo che, rischierà ogni momento di crollare aprendo le porte al voto anticipato. Distinguere l’attività di governo da una campagna elettorale strisciante sarà impossibile.

Così palazzo Grazioli alza il prezzo. I democratici, in ginocchio, si accontenterebbero di una delegazione governativa del Pdl non troppo venefica, con pochissimi ministri dell’ultimo governo Berlusconi, magari il “solo” Alfano agli Interni e alla vicepresidenza del consiglio. Berlusconi rilancia insistendo su Brunetta in un ministero economico. Ma non è nemmeno lui, l’ex ministro-pasdaran la vera linea del Piave. «Se tra i ministri c’è D’Alema – va giù piatto uno dei principali dirigenti berlusconiani – non si capisce perché non possa esserci anche Berlusconi». Nonostante proprio Berlusconi avesse già escluso la sua partecipazione al governo, sponsorizzando invece «tanti giovani e tante donne».

È lampante che l’intera gioistra è solo fumo negli occhi e contundente arme di contrattazione. Se il problema fosse la richiesta di bilanciare l’eventuale presenza di D’Alema agli Esteri o di Amato all’Economia (entrambi nomi partiti dal Colle) il Pd taglierebbe subito il nodo facendo di Franceschini il suo esponente di maggiore spicco al governo dopo Letta. Solo che il problema non è quello, e non è nemmeno, come sarebbe naturale sospettare, la poltrona chiave della Giustizia. Michele Vietti a Berlusconi va benissimo e il Pd è pronto a lasciarlo passare senza bizze. Come Mauro (ciellino) all’Istruzione e Lupi (altro ciellino) alla Sanità, del resto.

La contrattazione a muso duro rinvia dunque a un’altra logica, che ha poco a che vedere col nome di questo o quel possibile ministro: la necessità di mettere sempre più con le spalle al muro il Pd, di umiliarlo e costringerlo inesorabilmente a fare, uno dopo l’altro, tutti i passi che il suo elettorato considera inaccettabili.

Più che gli equilibri del governo pesa il confronto durissimo all’interno del Pdl, tra chi non vuole che il governo duri più di un anno e chi invece ha come orizzonte i due anni fissati da Napolitano. E pesa, naturalmente, la tattica pre-elettorale. Perché questa è una battaglia vinta ma la guerra la decideranno le prossime elezioni, che arrivino tra uno o due anni oppure, come è sempre possibile, all’improvviso.