Il Fmi ha silurato l’ennesima proposta greca – in cui Syriza si era già spinta molto (troppo?) in là nelle concessioni alla troika, accettando nuovi aumenti delle imposte e obiettivi di bilancio per i prossimi anni difficilmente sostenibili – perché le misure proposte da Tsipras, tra cui l’aumento delle tasse sulle imprese e una tassa una tantum sugli utili d’impresa superiori ai 500,000 euro l’anno, in alternativa ai tagli alle pensioni chiesti dall’Fmi, avrebbero un «effetto recessivo». Se la situazione non fosse così drammatica, ci sarebbe da ridere.

La stessa istituzione che in Grecia si è macchiata di uno dei più devastanti fallimenti predittivi ed economici della storia – nel 2010 il Fondo aveva previsto che il Pil greco si sarebbe contrato del 5%, mentre oggi siamo a -25% –, oggi vorrebbe dare a Tsipras, reo di aver cercato di redistribuire un po’ il peso fiscale dell’aggiustamento, lezioni di crescita. Quando peraltro gli stessi studi dell’Fmi sul famoso «moltiplicatore fiscale» dimostrano che gli aumenti di tasse hanno un impatto recessivo minore rispetto ai tagli alla spesa.

D’altronde, non ci vuole molto a capire che in questo momento tagliare ulteriormente le pensioni, che rappresentano l’ultima linea contro la povertà per milioni di greci, avrebbe un impatto recessivo ben più grave degli inasprimenti fiscali proposti dal governo (che comunque, sia chiaro, sarebbe meglio evitare nel mezzo di una depressione economica). Difficile non condividere la reazione a caldo di Tsipras alla notizia dell’ennesimo niet dei creditori: «O non vogliono un accordo oppure vogliono servire gli interessi degli oligarchi greci».

Paul Krugman sul suo blog è stato ancora più esplicito: «A questo punto dovremmo smetterla di parlare del rischio di un’“uscita accidentale” della Grecia dall’euro; se il Grexit ci sarà, sarà perché lo hanno voluto i creditori, e in particolare l’Fmi». D’altronde lo stesso Tsipras ha recentemente accusato la troika di voler imporre un «cambio di regime» nel paese ellenico.

Un sospetto alimentato dalla presenza a Bruxelles negli ultimi giorni dei tre leader dell’opposizione: l’ex premier Antonis Samaras, il nuovo leader del Pasok Fofi Gennimata e Stavros Theodorakis, segretario di To Potami. Dando corpo all’ipotesi che l’obiettivo dei leader dell’Ue, a questo punto, non sia quello di un accordo ma piuttosto di portare il paese sull’orlo del baratro, costringendo il governo a indire nuove elezioni, in cui l’opposizione si presenterebbe sotto un’unica bandiera pro-Europa.

Se veramente siamo di fronte al tentativo dell’establishment europeo di imporre un golpe soft nel paese – e ormai è una possibilità che non si può escludere –, quali opzioni rimangono al governo? Insistere nel tentativo di giungere a un «compromesso onorevole» che ormai appare impossibile sarebbe controproducente. Anche perché, se uno degli obiettivi del tentativo di «appeasement» di Tsipras era quello di dimostrare la buona volontà della nuova dirigenza greca, sollevando così il governo da ogni responsabilità per un’eventuale «uscita forzata» del paese dall’euro – e annessi effetti collaterali –, quell’obiettivo può considerarsi raggiunto. Basta leggere i commenti della stampa internazionale, sempre più critici nei confronti dell’intransigenza della troika.

È anche per salvaguardare questo «credito politico» – ma soprattutto per evitare di peggiorare ulteriormente la situazione economica del paese, molto dipendente dalla importazioni di cibo, carburante e medicinali – che andrebbe evitata l’uscita unilaterale della Grecia dall’euro. Rimane una terza opzione: quella del default senza uscita dall’euro, con l’annuncio che la Grecia non ripagherà il debito pubblico detenuto per l’80% da fondi europei d’emergenza, paesi membri, Fmi e Bce, né pagherà gli interessi dovuti.

A quel punto l’Europa sarebbe costretta a scoprire le sue carte. Non c’è nessun motivo, infatti, per cui un default dovrebbe comportare l’uscita del paese dall’euro; questo dipenderà unicamente dal comportamento della Bce: se questa accetta di ristrutturare e ricapitalizzare le banche greche – ponendo come condizione che queste non comprino più titoli di Stato ellenici, sostanzialmente recidendo il legame banche-governo, secondo la proposta avanzata da William Buiter sul Financial Times -, lo Stato greco, sollevato dal fardello del debito, potrebbe tornare sui mercati e l’economia potrebbe ripartire.

Volendo, il governo potrebbe anche prendere in considerazione l’introduzione di una moneta complementare, sul modello dei «certificati di credito fiscale» di cui tanto si parla. Se, al contrario, la Bce decide di chiudere i rubinetti della liquidità, l’uscita del paese dalla moneta unica – o peggio – sarà quasi inevitabile. Ma almeno il mondo intero saprà che «sarà perché lo hanno voluto i creditori».