Qualunque cosa intedesse fare Jean-Noël Schifano scrivendo E.M. o la divina barbara (Elliot, trad. di Mario Bertin, pp. 114, euro 16,00), ne è venuto fuori un potente e irrequieto ritratto di Elsa Morante negli ultimi mesi della sua vita. È, in effetti, un’immagine degna del pennello di Lucian Freud quella della sua amica Elsa nella stanza della clinica romana, a pochi passi da via Nomentana, ombreggiata dalle fronde di un’immensa magnolia. Siamo nell’autunno del 1984, ed Elsa, che morirà il 25 novembre dell’anno dopo, sta sulla sua sedia a rotelle come la regina di un paese senza nome, di una terra desolata a un passo dai cancelli del Niente. La catastrofe è iniziata alla fine del 1982, nel settantesimo anno di quest’essere umano così eccezionale da produrre, nella memoria di chi l’ha conosciuta, un interminabile stato d’eccezione.

È l’anno della pubblicazione di Aracoeli e del tentativo di suicidio con il gas, sventato dalla fedelissima Lucia, una donna siciliana che adesso, a Villa Margherita, la veglia giorno e notte e che sembra fatta, scrive Schifano, di «ombra nera e amore». A rileggerlo oggi, l’ultimo capolavoro lascia letteralmente stupefatti per l’infallibile bellezza della sua lingua, strazio risolto in musica, quella melodia della prima persona singolare che è la più incerta e delicata fra tutte le prestazioni dell’arte letteraria. Mi chiedo quale altro libro scritto in italiano, nella seconda metà del Novecento, sia paragonabile ad Aracoeli, nella sua capacità di spingersi così in alto e insieme di scavare così in basso, là dove la coscienza si trasforma in una sabbia mobile sempre sul punto di ingoiare se stessa.

È stata un’ultima resa dei conti con fantasmi che possono avere l’aspetto di marionette, ma sono marionette infuocate, che si esprimono crepitando, facendo cenni dal proprio rogo come i condannati di Artaud. Arrivo confusamente a capire anche la volontà di morire, dopo essersi lasciati alle spalle lo scandalo di una tale perfezione, come Balzac dopo Il cugino Pons, o Céline lo stesso giorno in cui ha completato Rigodon, libro amatissimo da Elsa («un uomo che si infila un gatto in tasca è più santo di un brigante»). Ma il destino è un altro, come se prima del riposo ci fosse un supplemento di pena da scontare, la lunga agonia di chi sopravvive al compito che si è assegnato. Ed eccola qui, Elsa, il foulard annodato a coprire i capelli grigi che ricrescono dopo l’operazione alla testa, al polso la catenella per l’orologio, in una mano l’Inferno di Dante e nell’altra un pacchetto di sigarette al mentolo.

Se è una regina, il suo trono è la sedia a rotelle, e il suo scettro il pappagallo sempre pronto all’uso, mentre un catetere le tormenta la vescica. Schifano, che si presenta sempre puntuale alle dieci di mattina, dopo aver abbandonato in albergo un’amante sempre più delusa da quella vacanza romana trascorsa in solitudine, non è solo il traduttore francese della Storia e di Aracoeli. E soprattutto non è qualcuno venuto lì con lo scopo di realizzare un’ultima intervista, di carpire e registrare qualche forma di testamento canonico. Come tanti altri, ha preso a ruotare intorno alla fiamma di Elsa come una falena innamorata. Si capisce bene che questa modalità della relazione rende molto problematica, per non dire impossibile, la ricerca di un punto di vista oggettivo, in grado di garantire la testimonianza.

Se Elisa è divina, come afferma il titolo di Schifano, appartiene a quella razza di divinità che si lascia dietro solo dei vangeli apocrifi, senza termini di paragone riferibili a una verità ufficiale. Il discorso tra «Elisa», come la chiama sempre l’autore, e «Giannatale» non ha nemmeno la forma di un discorso a senso unico, nel quale la prima parla e il secondo conserva nella memoria, per poi riferire. È un gioco, l’ultimo «gioco segreto» che si svolge sull’orlo imminente del precipizio. E giustamente, la più grande preoccupazione di Schifano non è stata quella di tramandare delle notizie (da questo punto di vista, nel libro c’è poco o nulla che già non si sapesse, a partire dalla storia della famiglia di Elsa), ma di trovare una forma letteraria adatta a render conto di questo gioco, e della sua perpetua circolarità.

Elsa/Elisa e il suo traduttore infatti si scambiano a turno dei racconti, impegnandosi in un minuscolo Decameron nel quale l’arte di ascoltare è almeno altrettanto importante di quella di raccontare. Anzi, è proprio nelle reazioni di Elsa alle imprese erotiche del suo amico che intravediamo il suo stato d’animo molto più di quando è lei a parlare delle sue avventure. Ma questo «romanzo confidenziale non finito», come alla fine l’autore ha deciso di definirlo nel sottotitolo, nella sua deliberata e quasi aggressiva inaffidabilità contiene l’affermazione di una poetica in forma di destino che non deve passare inosservata. Perché quando il gioco passa nelle mani di Elsa, ed è dalla sua bocca screpolata che proviene il racconto, è impossibile a Jean-Noël, che conosce quasi a memoria l’opera della sua amica, non accostare al fatto nudo e crudo la sua trasfigurazione romanzesca.

«Tu sai», lo rassicura Elsa, «le confessioni di Rousseau sono un vero romanzo a confronto dei miei romanzi, che sono delle vere confessioni… Io sono tutta intera nei miei libri». Il fatto è che questa presenza «tutta intera» nei suoi libri non è un semplice petizione di principio (qualunque scrittore potrebbe affermare di sé la stessa cosa) e tantomeno un sistema di equivalenze da decifrare con una chiave affidabile, come nei vecchi romanzi di società. Semmai, quello che Elsa affronta a partire almeno da Menzogna e sortilegio è un autentico processo di trasformazione che ha del magico e dell’alchemico: del magico perché riporta in vita ciò che non è più ed è seppellito nel suo silenzio; dell’alchemico perché ricondurre i materiali trattati al loro grado di massima e luminosa perfezione significa assoggettarli a un movimento circolare, nel quale il punto più basso della mortificazione è la premessa necessaria della risalita. Ed è così che la finzione può essere intesa e praticata, non come una tecnica artistica ma come un veicolo attraverso il quale ciò di cui si racconta può «essere reso alla realtà ed esistere veramente». Ma tutto è, questa «finzione», tranne che uno specchio e un documento.

È vero che Elsa non ha parlato che di ciò che ha conosciuto: sua madre, il padre ufficiale da cui ha preso il cognome e quello biologico, i fratelli («che io trasformo in cugini in Menzogna e sortilegio»), gli amori e gli amici. È però altrettanto vero che tutta questa materia umana, stretta fra un bisogno di confessione più autentico addirittura di quello di Rousseau e un istinto nativo della finzione, non ha bisogno di conservare una stringente somiglianza col modello di partenza per giungere al suo supremo grado di verità. Semmai, è vero il contrario, perché la scrittura non fa che rivelare l’archetipo nascosto nell’esistenza del singolo («sono là, da secoli, io li ho semplicemente messi sotto la luce del nostro tempo»).

Ciò significa che qualunque «modello» Elsa abbia tenuto di fronte mentre immaginava i suoi romanzi, è vero e irriconoscibile nello stesso tempo. Ne è stata ricavata un’essenza, simile alle anime che Dante spreme dalle vite dei suoi personaggi: corpi immateriali che però patiscono, moltiplicati, tutte le gioie e tutti i dolori della greve esistenza terrena. Più che un metodo, Elsa Morante sta confidando al suo traduttore una potenza psichica che ha finito per distruggerla, un esercizio della memoria che ha l’efficacia di un sacramento e l’incertezza di un’ordalia. Un modo di scrivere, infine, che non è stato altro, per questa divina barbara, che l’unica strada da percorrere per vivere fino in fondo la sua vita.