Proprio a Roma, a metà degli anni 80, scattò la scintilla che diede un indirizzo del tutto nuovo al lavoro di Pina Bausch. Dopo la scoperta a Nancy (festival diretto allora da Jack Lang) e poi Avignone, e una gigantesca personale a Colonia, e una apparizione veneziana di grande successo, l’artista ebbe all’Argentina un vero trionfo, con Café Müller e 1980. Fellini la scritturò per La nave va (a lei si era consacrato Wenders, e Almodovar le fece aprire e chiudere Parla con lei). Nelle conversazioni romane, in testa il mitico assessore Nicolini, nacque il progetto di uno spettacolo dedicato a Roma.

NACQUE così Viktor, che diventò il primo di una lunga serie (proprio Roma ha il privilegio di un secondo spettacolo, «commissionato» da Luca Ronconi in occasione del giubileo del 2000, Oh Dido). Nacque anche, in quella prima esperienza, lo schema che si sarebbe rivelato vincente: un anno prima del debutto previsto, la stessa Bausch andava per alcune settimane nella città che aveva avanzato la commissione; poi per un periodo più breve vi si recava l’intera compagnia, indirizzata da lei dove recarsi: non i luoghi da cartolina, quanto piuttosto i mercati, le periferie, i locali e le altre curiosità antropologiche e sociali. Solo dopo si partiva con le prove e la drammaturgia. Un metodo semplice, all’apparenza, ma con il quale la compagnia di Wuppertal ha disegnato un proprio originale atlante, precorrendo globalizzazione, migrazioni e conflitti che oggi ci appaiono chiarissimi, ma che allora lo erano molto meno. Un particolare poteva divenire chiave di volta rivelatrice per l’intera mappatura. Come a Hong Kong, dove l’efficienza e l’attivismo di quella città, ex colonia ma vera capitale, era vista dall’occhio del pulitore di vetri arrampicato sui grattacieli.

O COME a Nuova Dehli, dove il pubblico quasi stentava a specchiarsi in quei ponteggi di bambù, mentre la compagnia allegra e vitale si concedeva con riserbo ai ricevimenti dell’ambasciatore tedesco, ma si scatenava nei mercati a comprare stoffe, drappi e camicioni. Il tutto si è ripetuto per diverse decine di volte. Fino all’ultimo sguardo di Pina, Como el musguito en la piedra, ahi, sì, sì, sì, dedicato a Santiago del Cile: ma al debutto lei non c’era già più.